di MARIO SCHIANI – Un italiano che metteva d’accordo tutti ce l’avevamo, e ce lo siamo giocato. Ezio Bosso, pianista e compositore, è morto a 48 anni di età vinto dalla malattia neurodegenerativa che gli era stata diagnosticata nel 2011, dopo un intervento per un tumore al cervello. In questi nove anni di convivenza con la malattia, per quanti tormenti abbia dovuto sopportare dentro di sé, all’esterno ha lasciato trasparire una sola immagine: quella, sorridente, di un uomo fortunato, contento della sua vita, entusiasta della possibilità di esibirsi nei teatri e in televisione.
Scrivo queste righe da Como e qui Bosso se lo ricordano tutti bene. Venne in città nel maggio del 2016 per un concerto al Teatro Sociale. Un evento: appena pochi mesi prima era stato protagonista assoluto al Festival di Sanremo, condotto da Carlo Conti. La sua apparizione sul palcoscenico dell’Ariston aveva interrotto il costante andirivieni di polemiche, pettegolezzi e veleni che, in condizioni normali, alimenta la kermesse. Il suo atteggiamento vigoroso e gioviale, nonostante gli evidenti sintomi della malattia, aveva conquistato all’istante il pubblico in platea e a casa, riscattando in un colpo la funzione del Festival che, al suo meglio, sa essere un’autentica scena popolare e, anzi, è in grado di riportare questo aggettivo alle altezze che gli competono.
A Como, in piccolo, la magia si era ripetuta. Il teatro offrì a Bosso un doveroso “tutto esaurito” e lui ripagò con spirito e impegno. A dargli manforte, ovviamente, le sue note. Una musica senza parole, senza “messaggi”, senza implicazioni sociali, pro o contro questo o quello, priva di tatuaggi, maschere, abiti haute couture, messaggi cifrati per amici e nemici. Musica e basta: l’astratta coperta sonora che, se si è appena un po’ umani, avvolge subito il cuore e lo riscalda, saltando d’un balzo chiacchiere e contraddizioni, risentimenti e sofismi, opinioni astiose e ideologie sclerotizzate.
Qualcuno poteva forse coltivare il sospetto che la platea incantata di Sanremo, così come quella plaudente di Como, si fosse lasciata trasportare dal pietismo, ma davanti alla contagiosa vivacità di Bosso il dubbio svaniva. Ciò che il pianista induceva nel pubblico non era pietà ma speranza. Ovvero la dimostrazione pratica che la malattia si può e si deve affrontare con coraggio, che le nostre pene quotidiane, per quanto gravose, devono sempre essere messe in rapporto con i guai veri, con le tragedie che minacciano di portarci via tutto in un colpo solo. Bosso sapeva rincuorarci e, forse, farci perfino vergognare, almeno un poco: noi che, in piena salute, osavamo fare i capricci per un problema contingente, la lite sul lavoro, la baruffa con la fidanzata, il parcheggio conteso. Uno spirito di cui oggi abbiamo bisogno più che mai. Speriamo che, ora, non se lo sia portato tutto con sé. No: conoscendo la sua generosità, probabilmente ne avrà lasciato più che a sufficienza.
Bosso è andato via in una primavera surreale. Ed è rimasta di lui la traccia più reale, il significato del suo irriducibile impegno, della sua creazione artistica.
Una creazione fatta di necessità che diviene magnifica struttura, espressone di un talento sincero. Se sapeva già molto piccolo che la sua felicità poteva passare solo dal possedere uno strumento, dalla possibilità di poter imparare a leggere la musica, significa che lei era per Bosso espressione univoca del suo esistere, del suo esserci. E quel suo esserci è rimasto qui, ad abitare fortemente la nostra contemporaneità.
Il suo rigore, la sua passione e soprattutto la sua ricerca di nuove modalità, di commistioni artistiche, erano quelli di un eterno ragazzo che alla bellezza e allo scambio ci credeva veramente. Quelli di un musicista che non era disposto ad arrendersi . Non era una resa neppure quella che nel 2019 gli fece dire di non chiedergli più di suonare. Era una decisione presa per una condizione solo fisica. Ma la grandezza di Bosso è stata proprio la consapevolezza di essere distante dalla sua fisicità, di essere altro, di essere esattamente musica. La sua capacità di continuare, di comporre, di dirigere, di parlare irrideva la malattia. Non ha voluto negarla, ha voluto ricordargli che era ben poca cosa rispetto al significato della sua vita, il suo duro lavoro, il suo amore più grande.
Quell’insieme di note e pause in cui credeva con tutto se stesso. Verbo dell’anima, linguaggio di incontri.
La sua umanità nell’arte, nell’impegno per gli altri aveva l’energia inesauribile di chi si sente parte di un tutto, di chi creando si offre, di chi ha compreso di essere una parte piccolissima, che deve una partecipazione massima.
La sua saggezza percepiva la morte come un evento della vita, vedeva un continuo tra due realtà. Perché prendeva ancora lezioni da Beethoven proprio mentre dirigeva le sue sinfonie, perché intavolava dialoghi creativi con i grandi compositori che erano il suo riferimento.
In questo modo l’essere fisico veniva superato dalla grande bellezza “che non finisce mai”, diceva. E così lo immaginiamo danzare con il suo sorriso così vitale tra le nuvole della sua Clouds, the mind on the ReWind. Lo immaginiamo sognare di liberare il bambino di Io non ho paura con la forza prorompente della sua I’m not scared.
Siamo certi che la sua personalità abbia lasciato un’impronta di speranza per tutti, e confidiamo che i giovani imparino ad ascoltare la sua lezione umana migliore, quella della volontà. La sua lezione artistica migliore, quella dell’innovazione rispettosa.
E visto che aveva preso proprio male la condizione di reclusione che abbiamo vissuto tutti fino a qualche giorno fa, lo omaggiamo idealmente di un abbraccio fatto di una lunga pausa. Lui aggiungerà le note.