EUROPAVAX-RESTO DEL MONDO 0-3

di GIORGIO GANDOLA – È possibile che un paese di 9 milioni di abitanti bagni il naso al colosso Europa con 27 nazioni tenute insieme dall’Inno alla Gioia? È possibile, soprattutto se si chiama Israele e ha la necessità di vaccinarli tutti, con la priorità delle loro vite e dell’immunità per far ripartire l’economia. Lo fa senza badare a spese, non va sul mercato internazionale con il braccino ma compra, paga e mette in fila i cittadini con la manica della camicia alzata.

È possibile che l’Inghilterra della Brexit, che avrebbe dovuto colare a picco nella Manica per avere osato staccarsi da Bruxelles, abbia già immunizzato 20 milioni di persone (quasi un terzo del totale) mentre Italia, Germania e Francia annaspano all’8%? Sì, anzi è normale per tre motivi: Londra è storicamente efficiente nei rapporti internazionali, mai sottovalutare gli inglesi in guerra, a differenza delle barzellette divulgate dal circo mediatico Boris Johnson non è un pirla.

È possibile che gli Stati Uniti con quell’apocalisse di casi e una vastità territoriale tale che «anche il sole per attraversarli tutti impiega tre ore» siano al 22% dei vaccinati senza litigare se devono cominciare i medici, gli ottantenni o i sottosegretari? È scontato, perché è bastato che Joe Biden chiamasse al capezzale dell’America i detentori dei brevetti (in maggioranza americani) per veder tagliare gli ordinativi europei e dirottare misteriosamente le fiale verso New York e Los Angeles.

I tre casi servono per spiegare un flop ormai così lampante da essere visibile a occhio nudo, quello della campagna di vaccini in Europa, dove la bussola ancora una volta non è la sovranità del continente con le sue immense potenzialità, ma la burocrazia da catasto italiano che (non da oggi) domina a Bruxelles. “Problemi globali necessitano di soluzioni globali”, ha ripetuto per l’ennesima volta Ursula Von Der Leyen, e sarà anche vero. Ma se stati singoli (lasciamo perdere gli Usa) piccoli o scioccamente denigrati arrivano prima e meglio, significa che non bastano gli slogan di filosofia politica a risolvere i problemi, ma serve la buona vecchia efficienza.

È quella che l’Europa non conosce ed è il motivo più concreto per rilanciare le critiche a un dinosauro tutto chiacchiere e distintivo. I vaccini non sono uno scherzo ma l’unica soluzione alla pandemia; oggi essere gli ultimi della pista significa mostrare al mondo la propria impotenza da colosso dai piedi di argilla. Il problema è così evidente che l’Austria ha deciso di salutare la compagnia e la Danimarca sta per farlo. Il cancelliere Sebastian Kurz ha valutato che “l’Ema è troppo lenta nelle approvazioni e ci sono rallentamenti nelle consegne”, così è pronto a partire per Tel Aviv a stringere un accordo con Israele per produrre vaccini “di seconda generazioni in vista di ulteriori mutazioni”.

L’intenzione dei vertici europei era perfino buona: creare una sola centrale d’acquisto, scoraggiare la competizione sul mercato, calmierare i prezzi per poi distribuire a tutti.

Per diventare vincente, un piano simile deve presupporre una macchina organizzativa perfetta e la spietata capacità di picchiare i pugni sul tavolo per far rispettare gli impegni. In caso contrario il progetto è solo gigantesco e inefficiente, qualcosa di sovietico per la sua tronfia inutilità. È ciò che è successo, gli altri sono arrivati prima e senza il vincolo della trattativa: per salvare vite umane e ripartire prima, Tel Aviv e Londra non hanno messo in atto “pitoccherie”, hanno saltato la fila con i soldi in bocca. Cosa che peraltro ha fatto per prima la Germania (con i famosi 30 milioni di dosi fatti acquistare dai länder) quando ha capito che la strategia comunitaria sarebbe stata una Waterloo.

Risultato, adesso siamo gli ultimi in Occidente. Gli altri si vaccinano e noi aspettiamo in fila litigando sul nulla perché ci viene bene. Perfino Orban se la passa meglio. L’Ungheria ha adottato un metodo curioso ma efficace: considera valido ogni vaccino testato da almeno un milione di persone di altre nazionalità. Quindi compra e utilizza senza aspettare le certificazioni dell’agenzia europea del farmaco, dove le pratiche seguono regole tecnicamente ineccepibili ma tendono a fermarsi peggio che all’Inps. Nell’Europa dei tromboni i cittadini vengono dopo, in fondo lo ha detto anche Mario Draghi qualche giorno fa al suo primo Consiglio europeo: “Bisogna procedere molto più veloci. Le aziende che non rispettano gli impegni non dovrebbero essere scusate”.

Il tempo per rimediare c’è ma la figuraccia planetaria è lì da vedere. Nessuna tentazione sovranista, nessuna voglia di imbarcarci in uno stucchevole dibattito sui padri fondatori, ma neppure di sventolare i 209 miliardi del Recovery Fund (in massima parte a prestito e per ora virtualissimi) come alibi per tutto. Abbiamo messo insieme i fatti e i loro spigoli, raccontati con il distacco dedicato alle verdure lesse. Inno alla Gioia o mai una gioia?

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