ERNESTO COLNAGO, NOVANT’ANNI IN EQUILIBRIO SULLA BICI

È il Benvenuto Cellini della bicicletta (copyright Gianni Brera), per tutti è molto più semplicemente il Maestro, anche se questa mattina alle 11 Ernesto Colnago sarà professore, forsanche per un sol giorno Magnifico Rettore della Bocconi, che l’ha invitato in pompa magna per festeggiare i suoi primi novant’anni.

Oltre al rettore, quello vero, Gianmario Verona e al professor Tito Boeri, ci saranno in presenza e in remoto Beppe Saronni iridato ’82 e il Ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale Vittorio Colao, oltre al professor Romano Prodi e Luca Cordero di Montezemolo. Saranno in tanti a festeggiare il simbolo della bicicletta nel mondo, prototipo prodigioso del vero self-made man all’italiana, volto sempre a guardare avanti a sé, nonostante alle spalle abbia una storia difficile da condensare in poche righe di intervista. Ed è questa la cosa più difficile. La più facile e scontata è chiedergli subito come ci si sente dopo novant’anni di vita.

«Mi sento sorpreso, perché mi sembra quasi impossibile essere arrivato ad un simile traguardo. Me ne sento almeno venti di meno. Sto bene e mi diverto ancora a progettare e a guardare avanti. Non chiedo la luna, ma sarei felice di restare ancora qui un po’ con voi: è così bello…».

 

Colnago con l’ultimo fuoriclasse della scuderia: Pogacar

Sorpreso della Bocconi che la vuole onorare?

«Orgoglioso e intimorito: sarò all’altezza? Beppe Saronni, un campione che io considero come un figlio, ha sempre detto che la mia storia andrebbe raccontata nelle scuole: il suo desiderio sta per realizzarsi».

Prima l’Onu che l’ha appena premiato come ambasciatore della bici, adesso la Bocconi…

«Pensi, un piccolo artigiano che ha cominciato la sua storia in un bugigattolo di 5 metri per 5. Il destino ha voluto che scrivessi anch’io un bel pezzo di storia del ciclismo e della bicicletta. Pensi, dopo una caduta alla Milano-Busseto – correvo in bici ed ero anche bravino, un buon velocista -, la mia vita cambiò. Lavoravo già alla Gloria di Milano con un certo Gian Maria Volonté, dove avevo iniziato a 13 anni falsificando i documenti perché ci voleva un anno in più. Andai dal titolare con la gamba steccata e gli dissi: ho la gamba fuori uso, ma non le mani. Se vuole le monto le ruote da casa. Accettò. Non mi ci volle molto per capire che in cinque giorni – lavorando a cottimo – guadagnavo più che in un mese in fabbrica e convinsi mio papà a trovarmi un locale per allestire la mia bottega: cominciai in una stanza di cinque metri per cinque. Montavo bici, ma non mi facevo pagare: in cambio dalla Gloria volevo materiale tecnico. Mi serviva per le riparazioni ai clienti e per costruire biciclette complete: niente costi o quasi, e più marginalità per me. Tutto questo con mio fratello Paolo, di 12 anni più giovane, con il quale ho potuto fare gran parte di quello che ho fatto».

Un nome: Giorgio Albani, per Gianni Brera il primo “abatino” della storia.

«Nel 1955 Giorgio, professionista di buon livello, mi invitò a pedalare con Fiorenzo Magni. Ad un certo punto ci fermammo a una fontana, Fiorenzo si lamentava per un fastidioso dolore alla gamba e io, molto timidamente e dandogli del lei, gli feci notare che aveva una pedivella storta. Albani esortò Fiorenzo: “andiamo nella sua bottega per sistemarle”. Fiorenzo in verità si rifiutò di entrare: “non porto la mia bici in quel bugigattolo”, disse. Poi si convinse, riparai la pedivella e ripartì. Fece un intero allenamento senza fastidi. Il giorno dopo mi mandò a chiamare da Isaia Steffano, il suo massaggiatore: il signor Magni ti vuole al Giro. A da lì cambiò la mia vita».

Tante le vittorie: quasi 60 titoli mondiali, 18 olimpici, oltre 800 successi. Molti di questi firmati Merckx.
«Eddy non è stato solo un grandissimo fuoriclasse, ma è stato tra i pochissimi campioni a esortarmi nella ricerca: mi chiedeva soluzioni tecniche inaccettabili, però vinceva sempre ed era difficile dirgli di no. La bici del record dell’ora di cinquant’anni fa, con catena e manubrio forati e tubi speciali, ha aiutato la crescita e lo sviluppo di tutta l’industria italiana. Lui era esigente, io di più».

Prima Fiorenzo Magni ed Eddy Merckx, poi Enzo Ferrari: un altro che le ha cambiato la vita.
«Mi ero messo in testa di fare un telaio in carbonio. Chiamo Mauro Forghieri, all’epoca direttore tecnico della Ferrari e ci incontriamo appena fuori Modena, alla trattoria “La Rustica”. Spiego a Forghieri che vorrei incontrare il Drake per parlargli della mia idea. Il giorno dopo fummo ricevuti. Io ero con mio genero Vanni e Beppe Saronni. Con il Drake c’erano suo figlio Piero e Forghieri. Gli esposi la mia idea, e la cosa che mi colpì è che mi rispose parlandomi in milanese, visto che ai tempi della Alfa Romeo aveva vissuto a Milano. Nacque lì una collaborazione durata trent’anni grazie a Ferrari Engineering e anche grazie al mio amico Luca di Montezemolo».

Cosa ricorda di quell’incontro risolutivo?
«Gli rivelai imbarazzato di aver già superato i 50 anni, quindi di non essere più un ragazzino. Lui mi rimproverò senza mezzi termini: “Vergognati! – mi disse con tono deciso -. È l’età in cui ho cominciato a fare le cose migliori”. Poi indimenticabile fu quando a tavola, al “Cavallino”, fu lui a esortarmi a fare la forcella anteriore dritta. La disegnò su un tovagliolo al ristorante, mangiando mortadella: tornai a casa, ci pensai bene. Ci dormii su una notte e il mattino seguente la realizzai».

La vittoria che porta dentro?
«La Sanremo del ’71 di Michele Dancelli: alla sera il “divino”, Bruno Raschi della “Gazzetta”, mi consigliò di marcare le mie bici con l’asso di fiori, da allora è il mio simbolo nel mondo. Poi ci sono il record dell’ora di Merckx, i due Tour di Tadej Pogacar e la Parigi-Roubaix del ’94, dopo una vigilia parecchio tribolata perché i corridori non si fidavano a correre sul pavé con le bici in carbonio e soprattutto con la forcella dritta. C’erano un marchio di forcelle ammortizzate che offriva tanti soldi per adottarle. Non fu semplice convincere i dirigenti e i corridori, ma dopo un confronto franco con l’amico Giorgio Squinzi, il giorno dopo corremmo con bici in carbonio e forcella dritta e Franco Ballerini firmò un successo storico».

Ha messo in bicicletta anche un Papa beatificato…

«Sapevo che Karol Wojtyla era uno sportivo, gli preparai una bici da corsa laminata in oro. Andai a consegnargliela con la mia famiglia, lui disse ‘peccato non poterla usare per le strade di Roma…’. Gliene preparai un’altra sportiva, la usava d’estate a Castelgandolfo: ora è al museo di Cracovia. Quella d’oro l’ho ricomprata io e ora ce l’ho in una bacheca, in casa: è la bici di un santo».

Dopo la Vuelta di Tony Rominger, una bici anche al re…

«A Juan Carlos, che mi aveva invitato, portai la bici in Spagna. Mi parlò in italiano, non sapevo fosse nato a Roma».

Tanti i collezionisti, che vivono col mito della Colnago…
«Anche l’attore Robin Williams aveva una decina di mie biciclette. Pensi che una è appena andata all’asta per 250mila dollari. So che pedalava con Armstrong e gli diceva: io ho la Colnago, tu no».

Se è per questo lei è arrivato in ogni dove con le sue biciclette. Con il dialetto brianzolo ha venduto biciclette in Russia, Cina e in Estremo Oriente, ovunque: come ha fatto?
«Non conosco altra lingua che il brianzolo, ma ho girato il mondo. A una festa benefica a Los Angeles dove fui invitato perché avevo donato una bici, non sapendo cosa dire feci suonare ‘O Sole Mio’ e la cantai anche. E tutti cantarono con me».

Sa che lei ha costruito dei sogni per eterni bambini?
«A proposito di doni, sa che a Natale un collezionista olandese mi ha donato un modello che avevo costruito apposta per lui 35 anni fa con molti pezzi in oro: non l’ha mai usata, e l’ha tenuta esposta in salotto come un’opera d’arte. Qualche settimana fa me l’ha portata come dono. Oggi la mostrerò in Bocconi».

Cos’è per lei la bici?
«Come diceva Enzo Ferrari, il mezzo più perfetto che sia mai stato costruito. Le bici fatte bene e con cura, sono uniche».

Tanti gli uomini che ha incontrato lungo la sua strada, chi ha più a cuore?

«L’uomo che mi ha cambiato la vita è una donna: mia moglie Vincenzina. Con lei ho fatto tutto. Da cinque anni si è solo allontanata, ma c’è sempre. Abbiamo fatto tutto assieme: una grande azienda, nostra figlia Anna, una bella famiglia. Non potevo pretendere di più. Siamo stati proprio un bel tandem».

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