ELKANN HA PRESO TUTTO DAL NONNO

di GIORGIO GANDOLA – «Quello che è utile per la Fiat, è utile per l’Italia». Ci vuole poco a tornare virtualmente all’età dell’oro dei mitici anni 90, basta mettere in giro la voce che ci sono fondi pubblici a disposizione. E improvvisamente, come per magia, ecco che il tempo mette la marcia indietro e il mantra di Gianni Agnelli (una sera a Mixer lo ricalibrò con «quello che è male per Torino è sempre male per l’Italia») ritrova eccitata vitalità.

Formidabili quegli anni in cui l’Avvocato, monarca di un Paese alle vongole che vestiva alla marinara, si tuffava nudo dallo Stealth. Era un altro mondo, ma non tutti l’hanno capito.

Scambiando la Fase 2 di un’Italia stremata dal virus per una delle tante rottamazioni delle quali sentiva parlare quando giocava con la limousine a pedali, John Elkann ha chiesto soldi con garanzie dello Stato. Si è messo in fila con i commercianti che rischiano la chiusura, con le partite Iva che non hanno ancora visto un euro, con le piccole e medie imprese alle quali vengono richiesti chili di documenti per accedere a una goccia di credito. E quando è arrivato il suo turno, mostrando il volto emaciato di chi ha trascorso il lockdown in Cosa Azzurra, ha buttato lì un numero: 6,3. Che letto in miliardi non è la media gol di Cristiano Ronaldo in dieci partite, ma ben altro.

È un finanziamento importante, possente, sul quale il sistema Paese deve mettere una garanzia vincolante. Nel senso che i denari vengono erogati da Banca Intesa, ma è Sace (gruppo Cassa depositi e prestiti) a controfirmare l’operazione e quindi a intestarsene i rischi.

Ora è del tutto comprensibile che fra i lavoratori in difficoltà ci siano anche gli 80.000 dipendenti delle sei fabbriche Fca (Fiat Chrysler Automobiles) in Italia, ed è tecnicamente legittimo che il proprietario bussi al mega-finanziamento anche per dare ossigeno all’indotto (c’è sempre un indotto al quale dare ossigeno pubblico dai tempi del nonno).

Il problema è politico e di opportunità. Con una premessa surreale: dopo gli sbandieramenti entusiasti degli ultimi anni da parte dei nostri media in ginocchio, pensavamo che fosse lo Stato a doversi far garantire un prestito da Fca, esempio supremo di competitività.

Tornando seri, risulta stupefacente da stropicciarsi gli occhi che faccia richiesta proprio qui, con sereno distacco e con gli applausi di qualche partito – per esempio Matteo Renzi -, chi negli ultimi quattro anni ha spostato con voluttà all’estero tutta la mobilia trasportabile. Fca ha sede fiscale in Olanda, dove la capogruppo paga le tasse agevolate e stacca ghiotti dividendi agli azionisti; ha sede legale a Londra per non incorrere nei grovigli della giustizia italiana; è quotata a Wall Street perché gli americani (a differenza nostra) hanno il vizio di controllare i loro investimenti.

Tra l’altro, Fca avrebbe le forze per garantire da sola il maxiprestito senza bisogno di evocare, in un momento così delicato per le casse dello Stato, garanzie pubbliche che potrebbero essere destinate a risollevare imprese senza il paracadute creditizio della multinazionale. Ora la patata bollente passa sulla solita scrivania, quella di Giuseppe Conte, che avrebbe fatto volentieri a meno di una grana in più.

Nel Paese i partiti sono già tre: chi dice no a priori, chi è già sdraiato davanti ai diritti dinastici del casato e chi pretende che prima del malloppo da 6,3 miliardi (sarebbero volgarmente 6.000 euro per ogni italiano) gli eredi degli Agnelli riportino la sede in casa. Pura fantascienza, più semplice invece sarebbe chiedere che la capogruppo olandese non stacchi dividendi agli azionisti sugli yacht fino a quando è in vigore la stampella di Stato.

Purtroppo sono momenti così, da virus e non da champagne. Nei quali andrebbe aiutato chi si presenta con in mano il cappello di paglia, non il Borsalino.

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