Nel 1964, poco più che quarantenne, Pier Paolo Pasolini affidava a una “poesia civile” un certo senso di delusione, di arrendevolezza, nei confronti degli italiani. “L’intelligenza – scriveva – non avrà mai peso, mai, nel giudizio di questa pubblica opinione. Neppure sul sangue dei lager tu otterrai, da uno dei milioni d’anime della nostra nazione, un giudizio netto, interamente indignato: irreale è ogni idea, irreale ogni passione di questo popolo dissociato da secoli, la cui soave leggerezza gli serve a vivere, non l’ha mai liberato”.
Più di sessant’anni dopo possiamo dire che Pasolini sbagliava, ma per difetto. La “dissociazione” da lui denunciata non riguarda soltanto, o non più soltanto, gli italiani: essa è diffusa nel mondo, spalmata sull’intero globo come una materia vischiosa che impedisce alla logica – all’intelligenza, per citare ancora Pasolini – di muovere le sue leve, di “aver peso” sulla pubblica opinione. Quella che, ai tempi, molti descrissero come un’invettiva contro la passività degli italiani, la loro indifferenza verso le più importanti questioni morali, la pigrizia intellettuale nei confronti delle lezioni della Storia, è in realtà un’acuta profezia: ogni idea, così come ogni passione, è diventata irreale e come tale finta, priva di sostanza. Resta un gioco di specchi: strumenti, questi, al servizio tanto della vanità quanto dell’illusionismo.
Mark Zuckerberg di Meta (ovvero Facebook e Instagram, oltre a WhatsApp e a Messenger) fa retromarcia sul “fact-checking”, che poi sarebbe la verifica della notizia, quell’operazione che nelle redazioni dei giornali i capiredattori insegnavano ai praticanti. E’ festa grande tra cazzari televisivi e “youtubanti” vari: rimosse finalmente quelle briciole di verità, di consistenza logica e fattuale, che ancora inceppavano le loro potenti macchine calibrate per infangare, manipolare, mentire e, soprattutto, garantire consistenti guadagni. Il tutto, manco a dirlo, nell’interesse della “libertà di espressione” e per amore del “popolo”, entità così vicina, si capisce, a gente con il conto corrente della profondità di Zuckerberg e di Musk.
Ogni idea è irreale. E dunque leggera, aerea: nulla la tiene a terra, non certo le catene della veridicità e neppure quelle della decenza. Le idee sono mongolfiere alle quali aggrapparsi a seconda della convenienza: e certi palloni gonfiati, si sa, possono arrivare ad altezze vertiginose.
Il neoeletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha avuto bisogno di una sola conferenza stampa per occupare i titoli principali nel media di tutto il mondo. Senza colpo ferire si è annesso il Canada, Panama e la Groenlandia, due stati sovrani e un territorio autonomo della Danimarca. Siccome gli sembrava poco, ha buttato là l’idea che “Putin è stato provocato dalla Nato”, senza sapere, qui, di arrivare perlomeno secondo, battuto neanche tanto sul filo di lana dal portento strategico di un Orsini qualunque.
Dopo tutto, Trump non è che sia poi tanto speciale: è solo una particella nella moltitudine dei dissociati. Non peggiore e neppure migliore di chi sui social paragona i medici che somministrano i vaccini agli aguzzini della Gestapo: solo, ha messo a frutto l’irrealtà delle idee – le sue e quelle di tanti – per diventare presidente degli Stati Uniti invece che restare un pirla generico.
Questo può far paura, ma mai quanto l’idea – niente affatto irreale, per una volta – che, rimossa anche la punzecchiatura morale del “fact-checking”, guardandoci la mattina allo specchio vedremo sempre meno la nostra faccia e sempre più la sua.