E’ LA DISPERAZIONE A SCUOTERE LA CINA DI XI

Se la politica (economica) del Grande Balzo in Avanti, lanciata da Mao Zedong nel 1958, si rivelò uno spaventoso disastro sociale, quella (sanitaria) del Covid Zero, voluta da Xi Jinping, potrebbe non essere da meno. Inutile insistere nel tentativo di determinare con precisione quanti morti l’una e l’altra potrebbero aver provocato (le stime circa le vittime della carestia determinatasi in seguito al “Balzo”, che prevedeva una sorta di industrializzazione forzata del Paese a scapito della campagna, oscillano dai 14 ai 43 milioni): meglio registrare come, applicate dall’alto sulla pelle della gente, queste “terapie” sociali abbiano finito per scuotere un popolo tradizionalmente intelligente e industrioso, ma anche rassegnato a venir comandato da un imperatore lontano e capriccioso.

Eppure, quando è troppo è troppo. Lo dimostrano le proteste scoppiate in questi giorni in varie città della Cina, tra cui Pechino e Shanghai. Come sempre accade in questi casi, occorre una goccia per far traboccare il vaso. Anzi, in questo caso una scintilla per provocare un incendio. Dieci persone sono morte in un complesso residenziale a Urumqi, nella provincia dello Xinjiang, durante un lockdown imposto dalle autorità per contrastare il contagio. Disastro dal quale i cinesi non possono non sentirsi toccati: a tutti loro, dal fatidico 2020, sono stati imposti (e continuano a essere imposti) lunghi periodi di “detenzione” domestica, ripetuti test di controllo e sistemi di tracciamento digitale mentre, di converso, le vaccinazioni procedono a rilento o non procedono. Buona parte della popolazione anziana non è vaccinata e comunque l’industria farmaceutica statale non ha saputo produrre un vaccino all’altezza di quelli occidentali: la “copertura” offerta dal Sinovac per stessa ammissione delle autorità cinesi non supera il 70 per cento.

Davanti a questi fallimenti parte della popolazione ha deciso di scendere in piazza. Non si tratta di proteste di massa, ma è comunque significativo che in un Paese in cui ogni cittadino è tenuto stretto al guinzaglio dello Stato, in cui è questione di un secondo perdere diritti e privilegi se solo si osa criticare il governo, centrale o locale che sia, alcune centinaia o alcune migliaia di persone abbiano deciso di correre il rischio. Nei canali digitali tollerati – e controllati – dal governo sono circolate addirittura voci di frontale dissenso nei confronti di Xi Jinping, del quale qualcuno si è spinto a chiedere le dimissioni.

Non c’è ovviamente possibilità che ciò accada. L’ultimo congresso del Partito comunista, appena poche settimane fa, ha invece rafforzato la posizione di Xi, oggi al comando con altrettanti poteri di quanti disponeva il timoniere per eccellenza, Mao Zedong. L’assemblea di Pechino ha visto l’eliminazione di avversari anche solo potenziali del presidente e la rimozione di elementi della vecchia guardia non allineati.

Esclusa la speranza che il partito unico al governo potesse almeno confrontarsi al suo interno, il dissenso doveva infine sfociare nelle piazze. Ma Xi non ammette critiche né vicine né lontane e, come racconta il sito della Bbc, telefonate e visite della polizia hanno già raggiunto molti dei partecipanti alle proteste.

La politica Covid Zero continua dunque a dispetto del suo evidente fallimento, solo perché cambiarla intaccherebbe l’immagine di infallibilità del leader. E’ ironico – e tragico, per la Cina – che proprio in questi giorni Taiwan, la provincia ribelle, democratica e filoamericana, abbia annunciato l’abolizione di alcune misure anti-Covid, tra cui l’obbligo di indossare la mascherina in pubblico. Anche per questo il confronto aperto con Taiwan è sempre più inaccettabile per la Cina. Il timore è che la “cura”, in questo caso, potrebbe essere anche peggiore del Covid Zero.

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