Riconoscere la forza del proprio avversario non è un atto di debolezza, neanche di forza, ma di sensibile intelligenza: in campo ce le si da di santa ragione, ma alla fine viva tutti, soprattutto dopo un sontuoso e indiscutibile 5-1.
Poi c’è Luciano Spalletti che in campo guida i suoi ragazzi come pochi e si porta a casa una “manita” pesante, da perdere la testa. È chiaro che non è bello vedere il proprio sodale dal muso lungo scappare via senza passare dalle tue parti. È chiaro che non è il modo di comportarsi, ma il tecnico degli azzurri ha un vantaggio e non di poco conto: è al settimo cielo, per i cinque gol e i dieci punti di vantaggio. Ha vinto una delle partite più importanti di questa stagione e l’ha fatto senza sé e senza ma. Avrebbe il dovere di comprendere il momento difficile dell’avversario umiliato, mortificato, finito miseramente alle corde a più riprese. Invece no, in un Maradona festante di cori e canzoni, sciarpe e bandiere decide di ricorrere rabbioso Allegri in favore di telecamere. Lo insegue con il suo braccio teso e il palmo della mano bella spalancata. Ma come, scappi e non mi saluti? Sembra dire il tecnico di Certaldo. Un gesto tutt’altro che bello. Lo possiamo dire? Non bello.
L’Allegri sconfitto e perso tra tetri pensieri di una disfatta di siffatte dimensioni si accorge di lui e ricambia il saluto. Gli porge anche una carezza. Non si accorge minimamente di aver accarezzato uno che ha appena stravinto una partita – e che partita -, ma voleva anche il suo scalpo, il suo cuore, la sua anima. In guerra si riconosce l’onore delle armi, Spalletti ha preferito perdere un po’ di onore.