DONNE SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI

di ELEONORA BALLISTA – “Che fortuna hai, puoi lavorare da casa”. Questa è la frase che mi sono sentita ripetere più spesso da quando ho lasciato il mio lavoro in ufficio, circa vent’anni fa, per badare alla famiglia.

Per un po’ ho anche pensato che chi mi diceva così avesse ragione, che fosse davvero una fortuna. Poi ho rapidamente capito che l’ufficio fra le mura domestiche è una solenne fregatura. Per molte ragioni: primo, non stacchi mai; secondo, non c’è la tranquillità per concentrarsi (c’è sempre qualcuno che chiama, che telefona, che suona il campanello…in quei momenti vorrei rispondere “io non ci sono, io non sono qui”. Per ovviare al problema, qualche volta, ho persino evitato di aprire le persiane fingendo di non essere in casa); terzo, inevitabilmente ti ritrovi a pensare che mentre stai scrivendo un documento di lavoro, potresti magari avviare la lavatrice e, perché no, anche mettere su il ragù che intanto sobbolle piano piano, proprio come vuole la tradizione.

E’ persino scontato sottolinearlo, la mamma che lavora non è sollevata dalle altre incombenze domestiche: pranzo e cena devono essere pronti all’ora giusta e gli abiti devono essere lavati, stirati e riposti nell’armadio. L’elenco di cose da fare sarebbe ovviamente più lungo.

Ma tutto ciò è status da collocarsi prima dell’emergenza pandemia, perché con l’arrivo della peste le cose sono, se possibile, pure peggiorate. Tocca sempre lavorare da casa, c’è ancora tutto il carico domestico ma proprio tutto, perché non si può nemmeno più contare sull’eventuale aiuto esterno che potrebbe fornire una signora delle pulizie che, dato il lockdown, a casa non può venire. In più, adesso, fra le quattro mura c’è un certo affollamento tipo Calcutta perché sono tutti a casa.

Certo non posso non vedere, sarebbe disonesto, tutto il buono che ho a disposizione: ognuno, in casa mia, può disporre di un ambiente separato per le proprie riunioni o lezioni, e questo, ne sono consapevole, è un lusso per pochi. E quindi cerco di non lamentarmi. Detto questo, alcune difficoltà oggettive restano.

Esempio: per lavorare da remoto serve una buona connessione internet, ma se il resto della famiglia deve fare nell’ordine: una importantissima riunione in collegamento con Londra (lui), contemporaneamente un esame all’università (la grande), e pure un’interrogazione di storia dell’arte (la piccola), prova a indovinare chi rinuncia a collegarsi, altrimenti tutto salta.

Va bene, pazienza, tanto non è che non ho niente da fare, nel frattempo. Quel che si fa fatica a sopportare non è tanto la situazione contingente, quanto il fatto che questa condizione si stia protraendo in maniera ancora poco definita: cioè, sappiamo che finirà prima o poi, ma quando? Resisteremo fino ad allora?

Possiamo solo sperarlo e per farcela dobbiamo approntare un manuale di sopravvivenza degno della migliore organizzazione militare. Perché di questo si tratta, soltanto di organizzazione. E se riusciamo a metterla in pratica vinciamo noi. Dici niente.

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