DI SICURO LA CINA NON FINIRA’ PER IL DISSENSO A XI

Il risultato del voto – 2.952 voti favorevoli e zero contrari – esclude che nel procedimento possa essere entrata anche una sola particella di democrazia. Ma questo è quel che pensano gli occidentali e a Xi Jinping, che ha da pochi giorni ottenuto il terzo mandato quinquennale di presidente della Repubblica popolare cinese con il plebiscito di cui sopra, di quel che pensano gli occidentali non importa poi molto. Quel che conta è l’impressione lasciata dal voto sugli 1,4 miliardi di abitanti della Cina, i quali, senza dubbio, leggeranno nell’acclamazione più che bulgara di Xi la conferma lampante del suo potere assoluto, ormai praticamente gestibile “a vita”, visto che il leader ha 69 anni, e la certezza che il Paese non devierà dalla sua rotta politica ed economica a medio se non a lungo termine.

Alcuni accoglieranno questo dato di fatto con soddisfazione – tra questi il neoeletto premier, il fedelissimo Li Qiang, che ha ottenuto 2.963 voti favorevoli, con 8 astenuti e 3 contrari (l’unanimità spetta evidentemente solo al leader supremo, tutte le altre stelle devono sembrare almeno leggermente offuscate rispetto alla sua) -, altri con sopportazione e, come nella cultura cinese, supremo spirito di adattamento. Chi può, taglia la corda, ma sono pochi. Tra questi, molti residenti di Hong Kong: nel 2022 la città ha visto l’emigrazione di circa 60mila abitanti, circa l’1 per cento della popolazione totale. E’ il terzo anno consecutivo che la città perde una significativa quota di residenti verso destinazioni estere e la spiegazione ufficiale – trasferimenti per studio e lavoro – non nasconde la realtà: sempre più persone non vedono un futuro nella bolla di potere assoluto creata da Xi Jinping.

Il flusso migratorio da Hong Kong punta in particolare al Canada – dove già vive un’ampia comunità di persone originarie della città – e alla Gran Bretagna, che ai nati in periodo coloniale, ovvero prima del 1997, è disposta a riconoscere un passaporto BNO (British National Overseas), un riconoscimento parziale di cittadinanza che rende più facile ottenere permessi di soggiorno e lavoro sul territorio britannico. Un’immigrazione, questa, che il Regno Unito accoglie di buon grado, composta com’è da individui con educazione alta (non pochi provengono dal settore medico), che padroneggiano la lingua inglese e dispongono di denaro.

Chi resta, deve arrendersi allo strapotere di Xi, impostato su un nazionalismo con forti accenti xenofobi, temperato tuttavia dalla necessità di mantenere rapporti stabili con l’Occidente a garanzia dei traffici commerciali ormai estesi ovunque.

La crisi potenzialmente fatale tra Cina e Stati Uniti potrebbe aprirsi naturalmente sulla questione Taiwan. Sempre più segnali fanno pensare agli osservatori occidentali che Xi intenda risolverla prima di essere costretto, dal declino fisico se non da un avversario interno al partito che tuttavia, al momento, non si intravede, a passare la mano. Se intenda farlo nello stile tragico e sanguinario di Putin o attraverso una transizione “dolce” è tutto da vedere. Dopo tutto, nell’isola stessa non manca chi ritiene la riunificazione inevitabile. Come un satellite stanco, Taiwan potrebbe finire tra qualche tempo per cascare in braccio alla “madrepatria” senza che Xi debba chiedere al suo Esercito del Popolo di sparare un colpo. Una soluzione che metterebbe in imbarazzo gli Stati Uniti, perché al nodo Taiwan è in realtà legata una partita molto più grossa, quella del controllo militare dei mari della Cina meridionale: in questo scacchiere Usa, Giappone e Australia – che ora hanno un predominio militare e diplomatico – rischiano di vedere la situazione ribaltata a favore della Cina.

Molto, se non tutto, dipende ora da Xi e, come abbiamo visto, solo e soltanto da lui.

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