DESMOND SANTO SUBITO

L’edonismo reaganiano, gli yuppies, i paninari, le spalline a imbottire le giacche: gli anni Ottanta sono spesso e spesso giustamente ridicolizzati per il disimpegno e il vacuo luccichio, per la spensierata falsa ingenuità che rivestiva le nostre coscienze.

Una generalizzazione vacua a sua volta naturalmente, perché quella era giusto la patina, il rivestimento sotto il quale cuocevano inquietudini, lotte sociali e barbarie alle quali comunque non era possibile rimanere indifferenti: ricordo, così, a sentimento, Solidarnosc in Polonia, le lotte dei minatori inglesi, l’impegno contro l’Apartheid, a loro volta le estremità più eclatanti del mare di tragedie e ingiustizie di quel decennio, in questo senso né migliore né peggiore di qualsiasi altro decennio nella storia dell’umanità.

Io, adolescente in quegli anni Ottanta, alle prese con i turbamenti che dalla scuola media mi avrebbero accompagnato alle soglie dei miei vent’anni, ricordo bene Desmond Tutu.

Desmond Tutu se n’è andato, a novant’anni, e chi c’era ricorda che Desmond Tutu significa Apartheid. Per noi, ragazzini che provavano ad avere una coscienza, solo sporadicamente riuscendoci, perché l’adolescenza è l’adolescenza, Desmond Tutu era un nome forte, al quale non si poteva rimanere indifferenti, fin dalla fonetica fanciullesca della doppia sillaba reiterata.

Desmond Tutu era l’arcivescovo sudafricano che lottava contro l’Apartheid, e io ricordo che, in modo più o meno esplicito, tutti facevamo il tifo per lui.

Non c’era appartenenza di fede a decretare l’adesione alla sua missione, c’era qualcosa di semplicemente umano, che ci pareva folle da un lato, quello dei prepotenti, e inevitabile dall’altro, quello delle rivendicazioni.

Nel 1984 ricevette il premio Nobel per la pace, per l’impegno e la lotta contro il razzismo, e qualche anno dopo comprendemmo che era un riconoscimento forse piccolo, alla luce dello spirito che continuò ad accompagnare le sue parole e la sua causa. Perché lui continuò, anche dopo il formale, non ancora sostanziale, crollo del regime segregazionista. Si adoperò per unire le parti in modo pacifico e conciliante, quando noi, almeno noi ragazzi ultras, avremmo voluto vedere i cattivi, tutti i bianchi, cacciati e torturati. Lui condusse la Commissione per la Verità e la Riconciliazione nel penoso percorso di intesa e concordia, nel penoso percorso di rendere armoniosa una convivenza che a noi pareva scontata.

Non lo era, non era scontata. Nel tempo vennero messe in luce le peggiori crudeltà commesse dall’uomo bianco, qualcuno pagò, solo qualcuno, a qualcuno venne concessa indulgenza, reo confesso e sinceramente pentito. Forse, sinceramente pentito.

Gli anni Ottanta sono stati anche questo, non solo lucido e brillantini e luci al neon. Nel 1986 Miles Davis, uno dei protagonisti assoluti della storia della musica del ‘900, pubblicò un bellissimo album dal titolo “TUTU” e a me parve bello e inevitabile quel tributo a un personaggio altrettanto bello e inevitabile.

Ecco, ancora più di Nelson Mandela, io ricordo Desmond Tutu, e la notizia della sua scomparsa mi ha commosso, forse per la nostalgia dei miei anni Ottanta, forse perché è stata una persona che mi ha aiutato a comprendere che una luce al neon prima o poi si spegne, un valore no.

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *