DELON, IL CHIARO E LO SCURO DELLA BELLEZZA

Non scrivo una riga sulle sue donne. O sui suoi amori, onnicomprensivi. Meglio ricordare i cavalli e i cani, questi ultimi, cinquanta, amati e sepolti nel parco grande della dimora a Douchy. E Loubo, l’ultimo fedele, accucciato su un canapé, fotografato dalla figlia Anoucka dal finestrino di una automobile, come se la vita fosse sul punto di andarsene.

Come è stato per Alain Delon, di anni ottantotto, vissuti tutti ma, alla fine, graffiati da mali aspri, ictus, cancro, a ferire questo ragazzo uomo bellissimo e impossibile, angelo e diavolo, affascinante e indisponente, attore celeberrimo in Europa, per nulla nel flipper di Hollywood, forse perché Delon non era entrato nella compagnia della cocaina e dell’alcool, la sua droga era l’amore, il suo rumore preferito l’ululato di un lupo nel silenzio del bosco, la frase rabbiosa e arrabbiata “Putain de merde”, onesto e delinquente, frequentatore della peggiore feccia francese, messo in gattabuia per l’omicidio della sua guardia del corpo, Stevan Markovitch che, in una lettera inviata al proprio fratello, aveva messo tutti sull’avviso: ”Se mi ammazzeranno, i colpevoli sono Delon e Mastrantoni (uno dei capi della criminalità francese)”.

Dunque un altro Delon, fastidioso, evitato, disprezzato dalla gauche caviar perché l’attore non era soltanto di destra ma aveva addirittura manifestato l’amicizia per Jean Marie Le Pen, ammissione che gli costò l’espulsione dal ruolo di presidente onorario della giuria di miss Francia: ”Non sono loro a mandarmi via, sono io che sbatto la porta”.

Numero dei film uguale agli anni della sua vita, ricordi mille, sogni un milione, idolo di qualunque donna e invidie industriali di qualunque uomo, si muoveva, Delon, con circospezione, non usciva mai per primo dai locali, dimore, teatri, cinematografi, ristoranti e non vi entrava mai da ultimo, forse per le frequentazioni opache di cui sopra.

Belmondo era la sua metà ma come sempre accade i due erano andati ai materassi, perché Bebél, il giorno della prima di Borsalino, il film tratto dal romanzo Banditi a Marsiglia scritto dal grande Eugene Saccomano, giornalista di sport, spettacolo e cultura, il giorno della prima, dunque, Belmondo scoprì sul manifesto che il suo nome stava scritto in piccolo sotto quello maxi di Delon, lasciò la sala con un “merde” cambronniano.

Oggi la Francia finge di piangerlo, balle ipocrite, o meglio c’è una fetta grande di francesi che l’hanno adorato e così nel resto del mondo, perché Alain Delon, anche per il nome e il cognome che sapevano di profumo, era quello che chiunque avrebbe voluto essere, eppure qualche soldato giapponese resisteva sostenendo che in fondo come attore non valesse tanto, che nel Gattopardo era più affascinante Lancaster, che ne la Piscina gli occhi cadevano su Romy Schneider per la quale lui perse la testa, e ci mancava pure.

Per comprendere l’infatuazione del tempo porto un ricordo di famiglia, da parte di consorte. Delon aveva un cavallo, Equileo, trottatore a San Siro per il Gran Premio d’Europa. Prenotò una sala privata in un ristorante in corso Sempione, la cucina gli preparò un risotto verde, il colore era dovuto alla lattuga. Il titolare del ristorante lo informò che quella sala era riservata, da sempre, ogni domenica, da una coppia di affezionati clienti, Delon accettò i coinquilini che restarono in rispettoso silenzio. Una volta smaltito il pranzo, il gruppo francese abbandonò il locale e un secondo dopo la cliente fedelissima piombò al tavolo di Delon, afferrò la tazzina di caffè che aveva toccato le labbra dell’idolo, la avvolse in un tovagliolo legando i quattro angoli, quindi si rivolse al proprietario del ristorante: ”Questa la porto via io e non la vendo per nessuna cifra al mondo”. Non si ha traccia del cimelio. In qualche casa di Milano, Alain Delon resta fra noi.

Un pensiero su “DELON, IL CHIARO E LO SCURO DELLA BELLEZZA

  1. Cristina Dongiovanni dice:

    Una statua del Canova in carne ed ossa lascia senza fiato. La bellezza di Alain Delon mi ha rapita da piccola, ed ero molto piccola. La cosa buffa è che era talmente bello che io, ingenua, non mi accorsi che fosse anche tremendamente affascinante. L’ho scoperto anni dopo, guardando un paio di film. Non mi è mai interessato approfondire la sua conoscenza né umana né professionale. Non avrei preso la tazzina perché non fa parte di me ma sarebbe stato un giorno indimenticabile. Solo per quella banale, perfetta e ridicola bellezza che non ha mai avuto bisogno di altro ai miei occhi. E al mio cervello.

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