DALLA SCHLEIN ALLA EGONU, LA COMODITA’ DI SCAMBARE I CRETINI PER RAZZISTI

Le parole? Bellissima invenzione. Superiore, a mio avviso, a quella della ruota. Infatti, ci portano molto più lontano e senza necessità di sostituirle in autunno con coperture da neve. Oddio, a dir la verità il pericolo di slittare in curva esiste anche con le parole, ma è facile schivarlo: basta ancorarle per bene al loro significato.

Purtroppo, di tanto in tanto capita di incappare in qualche errore e le conseguenti sbandate non sono proprio trascurabili. Un esempio, se mi è permesso. Di recente ho notato una certa confusione tra i termini “discriminazione” e “bullismo”. La discriminazione è un affare molto serio che comporta per qualcuno la privazione di diritti fondamentali a vantaggio di qualcun altro. Si può essere discriminati per sesso, religione, etnia, inclinazioni sessuali e opinioni politiche: questo comporta che per il semplice fatto di “essere” qualcosa ci vengano negate le opportunità (e dunque in ultima analisi una forma essenziale di libertà) concesse agli altri. Alle genti di colore del Sudafrica e, in precedenza, a quelle di certi Stati americani, è stata a lungo negata l’integrazione con la popolazione bianca: una separazione non solo culturale, come veniva giustificata, ma di fatto economica e civile. Agli ebrei, in vari luoghi e in varie fasi della loro lunga storia, sono state imposte restrizioni e vessazioni che li separavano dal resto dell’umanità, fino all’orrore assoluto dell’Olocausto (e dei pogrom) che ha mirato alla loro eliminazione totale.

Questa è la discriminazione: una forma di emarginazione che ha conseguenze penalizzanti (e perfino fatali) su gruppi di individui. Quando si parla di antisemitismo, si parla della radice più ostinata della discriminazione, quella che ha avuto, nella storia, le conseguenze più tragiche. E’ dunque anche una questione di rispetto parlarne con misura e precisione.

Quando Elly Schlein, parlamentare e candidata alla segreteria del Pd, allude all’antisemitismo nel commentare le battutacce spuntate in Rete circa il suo naso, con riferimenti più o meno velati alle sue origine ebraiche (da parte di padre, il che tecnicamente non fa di lei un’ebrea), certamente svela un pregiudizio ancora stagnante nel nostro Paese (e non solo), ma dovrebbe forse più propriamente parlare di bullismo. Che è una faccenda grave pure quella, ma diversa.

Il bullismo è l’attacco puerile, non per questo meno doloroso, all’individuo, messo alla berlina per un suo presunto difetto fisico, o comportamentale, ingigantito fino a inglobare e annullare l’intera persona. Bulli e forse antisemiti allo stato embrionale sono quelli che hanno attaccato Elly per il suo naso, come bulli e stupidi sono stati nel tempo tutti i mocciosi che hanno torturato i compagni di scuola irridendoli per la balbuzie, le orecchie a sventola, le lentiggini e quant’altro. Bullismo: nient’altro che vecchio, stupido, orrendo bullismo.

Oggi però al bullismo si preferisce la “discriminazione”: di fronte a una prepotenza, a un’osservazione sgangherata e superficiale è facile provvedere a una sorta di deragliamento della categoria. L’osservazione inelegante sulle forme generose di una signora diventa un “attacco alle donne” e dunque un problema di piazza, di società: da una parte si schiera subito chi è solidale e corretto e dall’altra si sbattono i “razzisti della ciccia”. Questo genera una sorta di caccia virtuale all’ingiustizia diffusa, al nemico ideologico che va individuato, isolato e infine rieducato. Ma è sempre e comunque così, oppure la vera battaglia è quella contro la stupidità? Un duello, questo, che l’umanità conosce dal primo giorno, dalla prima alba della specie sulla Terra: da allora, per l’intelligenza, una sconfitta dietro l’altra, nessun dubbio, ma anche la consapevolezza che lo scontro va rinnovato, ripetuto, pena il cedimento finale di quella enorme promessa mancata che, a tutt’oggi, ancora è l’essere umano.

Invece di riconoscere la fondamentale importanza di questo scontro, si preferisce oggi correre al riparo della discriminazione, dipingendo così un’umanità pervasa di ignoranza organizzata, più che di semplice stupidità sciolta. Questo ha una conseguenza: è facile, adottando tale punto di vista, arroccarsi su posizioni di totale e virtuoso antagonismo con il prossimo.

Paola Egonu, pallavolista nera, sul palco di Sanremo come co-conduttrice (di un maschio bianco, tra l’altro), ha dichiarato in un’intervista che non ci tiene a mettere al mondo un figlio “perché vivrebbe lo schifo che ho vissuto io”. E con “schifo” intende razzismo e dunque discriminazione. Nessun dubbio che lei abbia conosciuto, crescendo, brutte esperienze e sia incappata in incontri sgradevoli con gentaglia razzista. Ma la autorizza, tutto questo, a condannare in blocco la società passata, presente e futura, incapace, a suo dire, di qualunque riforma e comunque indegna di una lettura più particolareggiata, di un’analisi capace di distinguere tra chi è razzista e chi no, tra chi è imbecille e chi prova a ragionare?

La condanna di Paola Enogu è una condanna alla società italiana tutta, ma in fondo anche una maledizione filosofica lanciata sulla natura stessa dell’uomo, capace solo, evidentemente, di produrre “schifo”. Questo potrebbe anche essere vero, ma riguarda tutti: privilegiati (che restano privilegiati) e non privilegiati (che restano non privilegiati), impegnati in una battaglia in cui i veri nemici sono i nostri limiti e non soltanto quelli altrui.

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