In realtà, mi rendo conto di come sia, tutto sommato, facile giudicare e pontificare su ciò che accade, si dice e non si dice, nelle zone ad alta densità mafiosa: intendo dire che alzare il ditino e fare l’arcicensore di certi comportamenti, oggettivamente un po’ anomali, che caratterizzano gli abitanti di Corleone o di Locri, stando comodamente seduti in poltrona, a Bergamo piuttosto che ad Alessandria, è, tutto sommato, una nobile operazione a costo zero. Se tu, ogni santo giorno, con la mafia ci devi convivere, tendi, probabilmente, a misurare le parole e i giudizi, più di quanto non faresti fuori del raggio d’azione dei Mammasantissima. Non pare essere questo il caso del gestore castelvetranese, ma ritengo che andasse detto, a titolo, se non di giustificazione, perlomeno di spiegazione di certe omertà, di certi non saprei.
Ma, tornando a fagiolo, nel caso della censura di “Iddu”, entrano in gioco due diversi ragionamenti: il primo riguarda la volontà di non dare pubblicità a certi personaggi, che, proprio sulla propria mitizzazione fondano parte del loro ascendente o, perlomeno, del loro potere. E io su questo sono d’accordo: di certi individui è meglio non parlare, non alimentare il loro narcisismo criminale e neppure il loro alone di crudele celebrità. L’ho scritto mille volte a proposito dei terroristi, la cui vena narcisistica è sempre molto marcata: raccontarne le gesta, sia pure per esecrarle, fa il loro gioco e li rende degli eroi agli occhi del volgo.
Tuttavia, l’azione di un proprietario di cinema che si rifiuta di mostrare un film, poiché ne disapprova la ricaduta (non i contenuti, si badi bene) sugli spettatori, impone un ulteriore supplemento di analisi, che riguarda non il nostro e suo rapporto con la mafia, ma, più in generale, la funzione censoria. Mi spiego. Poniamo che io possieda una drogheria e mi rifiuti di vendere ai clienti la Coca Cola, perché ha un PH troppo acido e ritengo che alla lunga possa far loro male. Oppure che io gestisca un’edicola e non venda nessuna copia di questo o quel quotidiano, perché ne trovo l’impostazione del tutto nociva per la crescita democratica dei potenziali lettori: farei bene o farei male? Insomma, può un mediatore (perché di questo si tratta, se si proiettano film per la gente nel proprio locale) decidere cosa mostrare o non mostrare al pubblico? O, piuttosto, è suo compito limitarsi ad offrire al popolo la realtà, sia bella o sia brutta, lasciando che sia il popolo stesso a giudicare?
E’ una questione di non poco conto e, senza voler scomodare la cultura accademica, è la stessa che si posero gli scrittori europei alla metà del XIX secolo: un romanzo deve educare il lettore, indicandogli il bene attraverso figure simboliche e verosimili, oppure deve limitarsi a proporgli la realtà oggettiva, senza commenti né annotazioni, e lasciare che sia lui, attraverso la sua sensibilità e il suo acume, a giudicare, valutare, comprendere ciò che il romanzo vorrebbe trasmettere, in chiave sociale, psicologica, emotiva? Mme Bovary contro Lucia Mondella, in altre parole.
Come vedete, non è un problema da nulla: coinvolge la nostra formazione, il nostro gusto, ma a anche il nostro diritto ad essere informati, la nostra libertà di decidere cosa sia buono e cosa sia cattivo, cosa ci piaccia e cosa non ci piaccia. E, in questo caso, lasciarlo decidere al signor Vaccarino mi parrebbe un riconoscimento di poteri che travalicano quelli di un gestore di cinema. Anzi, per dirvela tutta, io un potere del genere non lo concederei a nessuno: tu fammi sentire le idee di tutti, raccontami la storia di tutti, e poi sarò io a decidere. Perlomeno, questa è la mia idea di libertà: non sento il bisogno di qualcuno che, a monte, stabilisca ciò che è bene e ciò che è male per la mia salute psichica, sociale ed emotiva.
In altre parole, non ho bisogno di maestrine con la penna rossa. Se è stato fatto un film su Messina Denaro, voglio poterlo vedere, se me ne viene l’uzzolo: sta a me stabilire se sia bello o brutto, utile o nocivo. Non al proprietario del cinema o a quello che mi vende i biglietti. Si chiama autodeterminazione e regge da sempre l’idea di libertà, tanto individuale che collettiva.