DA DONNA A DONNA, DA CRONISTA A CRONISTA: LA PROSSIMA VOLTA INSULTALO, QUEL PRIMATE

Dunque, vediamo, se capisco bene Greta Beccaglia, la bella (sì, bella, bellissima) giornalista sportiva inviata di “Toscana Tv”, presa a manate sul sedere da un tifoso, anzi, da un inqualificabile soggetto maschile, fuori dallo stadio di Empoli, ha sbagliato l’abbigliamento.

Avesse indossato un bel saio, stretto in vita dalla corda d’ordinanza, non le sarebbe capitato niente. Perché nessuno avrebbe visto la sua perfetta silhouette.

E’ la stessa Greta ad avere il dubbio: quei suoi jeans stretti possono avere incitato la suddetta manata.

Seconda osservazione: il soggetto, sempre inqualificabile, che solo per eleganza dello scrivere non chiamo semplicemente “stronzo”, non si è minimamente preoccupato del fatto che la sua azione fosse ripresa dalle telecamere.

Anzi, forse ne era quasi lusingato. Data la ribalta, la sua bravata avrebbe avuto risonanza mediatica, con il relativo quarto d’ora di gloria Warholiana.

Ecco, diciamo che qui i problemi sono almeno due: Greta che si fa venire il dubbio sui jeans e l’inesistente senso del limite dei protagonisti maschili di questo tristissimo episodio (sì, protagonisti al plurale perché al campione che ha allungato la mano sono seguiti gli insulti di altri soggetti della medesima levatura).

Un fatto deve essere chiaro: se una bella ragazza come la collega Beccaglia decide di indossare un paio di jeans attillati, è nel pieno diritto di farlo anche se lo scopo è unicamente quello di sottolineare la sua linea perfetta. Cioè, noi donne non ci vestiamo solo per coprirci, lo facciamo anche scegliendo ciò che ci fa apparire meglio. E questo non può essere una colpa, anche se la scelta modaiola attira l’attenzione.

Il punto è che allo sguardo, legittimo, non può, non deve, seguire un crescendo di fischi o pacche ben assestate.

Ragione da vendere ha Greta quando dice che lei è fortunata perché avendo la visibilità che il mestiere le conferisce, può denunciare facendosi sentire. Ma quante altre donne che lavorano hanno subìto il medesimo trattamento nell’anonimato dell’ufficio, da parte di qualche vicino di scrivania, o peggio, da parte del capo che, protetto dal rango superiore, si sentiva in diritto di procedere?

Una parola anche sul collega della Beccaglia che, da studio, le dice di non farci caso e andare avanti, frase infelice di cui poi si è lungamente scusato: perché un moto di ribellione da parte sua non è venuto subito?

Tutta questa faccenda mi fa tonare in mente la questione della mancata sedia in Turchia alla presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen, con quel tiepido Charles Michel che non riesce né a cederle il posto, né a chiedere una sedia in più.

Se la prossima volta che una giornalista subisce un’umiliazione del genere in diretta reagisce con un insulto bello pesante, da camionista e da camallo, credo che non avrò niente da dire. Perché quello è probabilmente l’unico modo di comunicare con certi primati.

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