CRISI DI PANICO: PAURA DI VIVERE, NON DI MORIRE

di MICAELA UCCHIELLI (psicologa e psicoterapeuta) – Immaginate un cielo sereno e immaginate lo squarcio improvviso di un fulmine. Immaginate che in quel tempo quieto irrompa il caos.

Un istante prima tutto sembrava andare bene, l’istante successivo, invece, si impone una sensazione orrenda di morte imminente; il respiro diventa faticoso, si avverte un senso di soffocamento.

Il cuore impazzisce nel petto, accelera a dismisura il suo passo, un dolore acuto costringe il torace.

Si sperimenta una percezione di sudorazione eccessiva, spesso compaiono tremori, la vista si appanna, il mondo, fino ad un attimo prima così stabile, comincia a girare. E’ la vertigine.

Una paura senza nome attanaglia il soggetto. Talvolta è come se si fosse spettatori della scena, come se la si guardasse da fuori. La chiamano depersonalizzazione, una specie di distanza sociale ma da se stessi…..

Si tratta dell’attacco di panico, fenomeno ancora molto diffuso. Ma cos’è di preciso questo panico?

Il panico riguarda il corpo che viene attaccato, appunto, letteralmente: si tratta di essere ridotti ad un corpo fuori controllo.

Il soggetto panicato riferisce spesso l’esigenza di tenere tutto sotto controllo, ma la perdita radicale dello stesso mostra, con evidenza, l’impossibilità umana di questa manovra.

Il panico segna una scansione, un solco profondo che separa, come un orizzonte, il confine fra un prima e un dopo.

Dopo, il mondo è diverso, abitato dall’attesa angosciosa di un nuovo attacco: essere sopravvissuti non è di alcun conforto e così, dopo aver fatto una serie di accertamenti medici che attestano lo stato di salute fisica del corpo, ci si incammina claudicanti in un sentiero sconosciuto.

Il panico è limitazione ed evitamento: si comincia a non frequentare più i luoghi affollati e senza una rapida via di fuga. Diventa difficile guidare, andare a fare la spesa al centro commerciale da soli, prendere un ascensore o un aereo, andare ad un concerto o al cinema.

Chi soffre di attacco di panico si racconta come un soggetto che smarrisce le proprie coordinate. Le limitazioni servono allora a creare confini nuovi.

Il soggetto teme di restare solo: il panico è infatti spesso l’esito di un legame che minaccia di dissolversi. Un legame fragile e confuso. Spesso questi soggetti si sono impegnati con forza a soddisfare la domanda di un genitore, smarrendosi tra le maglie delle sue richieste, in una presenza eccessiva e sregolata o al contrario congelata, senza affetto, talvolta di abbandono.

Il panico riguarda infine l’angoscia, intensa. Angoscia di impazzire o di morire. Ma se si ascolta bene fra i detti di un panicato quel che emerge, non senza sorpresa, è che la paura di morire svela una paura più intensa, quella della vita, con l’eccesso non controllabile che essa, sempre, porta con sé.

Si scopre così che il panico è del tutto sincero nel mostrarci la verità sulla fragilità dell’esistenza. Come anche, all’opposto, sulla sua potenza.

Ma per illuminarne i due volti occorre metterci delle parole, come ci spiega il bambino freudiano, spaventato dal buio, che invita la zia che si trova nella stessa stanza a parlargli.

“A che serve? Così non mi vedi lo stesso”, dice la zia.

“Non fa nulla, se qualcuno parla c’è la luce”, insegna il bambino.

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