La Mole, Superga, il Valentino, la Juve, il grande Torino, i tajarin, la bagna cauda. E l’Avvocato, l’orologio sul polsino, l’elicottero, la Fiat, gli Agnelli, Gianduja.
Vai in soffitta e rovisti nel baule per allestire il presepe, quello piemunteis come i trenini elettrici, e scopri che non c’è soltanto polvere, ma muffa e ruggine, roba da buttar via. Torino è cambiata, d’accordo, dopo l’Olimpiade invernale si era fatta bella, pulita, graziosa, sembrava una città francese. Poi ha fatto i conti con la caduta dell’Impero, scomparsi gli Agnelli, quelli veri, il quadro di famiglia vede gli eredi non meglio identificabili, spesso cartonati di se stessi, immagini senza sostanza, caviale scaduto, la Fiat diventa un gioco perfido Fabbrica Italiana Automobili Taroccate o, in traduzione tedesca, Daellt in allen teilen (cade in mille pezzi), si scherza con il fuoco acceso da loro medesimi. Torino si sdraia lungo il Po ma ha pure stravolto la sua identità di immigrazione, la folla dei meridionali, detti Napuli e non Terroni, come nel resto d’Italia da Milano in poi, è stata sostituita dai nuovi arrivi detti in forma dialettale “i ramadà”, senza necessità di traduzione.
E’ cambiata la pelle, la nebbia che avvolgeva gli scritti di Giovanni Arpino è oggi gas tossico, smog sociale. Giovanni era un bordocampista di quella Torino, l’amava, la odiava, la sbirciava dopo averla osservata: impossibile ritrovare quell’aria anche opaca in questa Torino così uguale ad altre mille città, anche la Mole è diventata un oggetto spettacolare con le sue luci colorate secondo usi e circostanze, anche Superga è un luogo di pellegrinaggio episodico, nonostante la tragedia del Torino e la basilica che è luogo di sepoltura di sovrani sabaudi, la Rai TV che qui aveva mosso i primi passi è un cimelio museale, non dico delle due squadre di football gonfie di debiti e fischi e insulti, Mirafiori è il simbolo terribile della caduta, i cancelli chiusi, l’alveare di operai e dirigenti è diventato uno stagno di ricordi, anche i sindacati stanno alla larga dall’edificio biancastro che significava l’isola del tesoro, l’approdo del sogni per la gente che arrivava alla stazione di Porta Nuova, con le valigie di cartone e gli occhi malinconici di terre abbandonate.
Erano gli anni del boom, Rìsula, ricciolo come veniva chiamato Gianni Agnelli per il suo ondame brizzolato, se la spassava mentre nella Feroce, la fabbrica di Mirafiori, la catena di montaggio scorreva senza sosta e circolavano battute perfide tra gli operai: “Secondo te, l’Avvocato fa all’amore?”, “Certamente, ne sono sicuro”, “E perché sei sicuro?”, “Perché altrimenti lo farebbe fare a noi altri”.
Ecco, non c’è più nemmeno la voglia di ridere, forse perché non c’è più Rìsula, forse perché non c’è più la Feroce, che si è fatta Fca e poi Stellantis, e non si sa o capisce bene dove siano le stelle. Torino, come Genova, è un’idea come un’altra.