di JOHNNY RONCALLI – Mia padre e mia madre, figli di un’altra epoca, sono ammirevoli. Hanno la fortuna di avere risparmiata l’invasione smart nella narrazione di questi tempi, ma anche solo la tv costringe a diventare appassionati di puzzle.
Linearità, sequenzialità, sono ormai aspettative impossibili nel racconto. Un contributo essenziale alla nebulosità degli eventi è dato dai frammenti, dai cocci sbecchettati e mal rifiniti che piovono da tutte le parti. Tutto in fretta perché la torta che è il racconto va farcito di corsa.
Abbiamo fame, o siamo semplicemente golosi, ma più ancora tutti siamo avidi di riconoscimento. Tutti vogliamo entrare nel ruolo del narratore. Scriviamo, inviamo, più spesso inoltriamo, vogliamo raccontare la causa e vogliamo raccontare l’effetto, ma ciò che più conta è avere la certezza che la missiva sia stata ricevuta, vista, letta. E apprezzata, con un bel pollice all’insù.
Sarà difficile anche ricostruire il racconto dei nostri giorni nella morsa del virus. Perché non ci sono racconti lineari, oggettivi – per quanto possibile – nel leggere i fatti, tanto meno ordinati in senso temporale, piuttosto schegge impazzite delle quali si ignora quasi sempre la sorgente, il detonatore.
Arrivano, partono, ritornano, si modificano, si cancellano. Peggio, piene di vergogna, perché false o smentite, talvolta cercano di trovare giustificazione o scomparire. Senza riuscirci, anche l’archiviazione è più complicata.
Non fa bene a nessuno questa tempesta nella tempesta. Fa cattivo tempo là fuori, ma dentro non splende il sole, perché l’umore, già barcollante, è in balia di qualcosa che aspettiamo e che immancabilmente arriva sotto forma di notizia, video, scoop, fatima rivelata. Ci fa abbozzare un sorriso e un momento dopo ci deprime, e così ininterrottamente.
Ci vorrebbe un racconto più decoroso forse, più spoglio ed essenziale, un racconto quasi estinto, temo.
Ci vorrebbe qualcuno che narrasse se non la causa almeno l’effetto con dignità, sobrietà, decoro appunto. Pietà anche. E qualche sorriso, certo.
Sto pensando alle Lettere da Bergamo del nostro @ltroPensiero, certo, e al privilegio di poterle leggere, pur con l’amarezza che la realtà ci riserva.
Ci vorrebbe, per l’appunto, un racconto a puntate, al quale anche i grandi romanzieri del passato si prestavano, narrando la causa, l’effetto, il delitto, il castigo.
Con calma, senza fretta.
Caro JOHNNY,
hai fatto espresso richiamo a TRE BELLE PAROLE : dignità, sobrietà e decoro.
Ma dove vivi ? Non vedi quanta miseria si continua a propinarci?
Di spirito , ovvio. Ecco, a proposito, la QUARTA bella PAROLE che citi : PIETÀ.
La PIETAS era roba seria, mica quel …modo di fare (chiamarlo SENTIMENTO sarebbe un oltraggio a chi ne fosse destinatario) che nei “tempi moderni” è un incrocio tra il lacrimevole compatimento e la pacca sulla spalla.
Le LETTERE DA BERGAMO sono portatrici sane della PIETAS.
Non per nulla chi le scrive sa pensare, e molto bene, prima di usare la penna.
Se non a stroncare “il bastardo” (così mi ostino a chiamare la malattia che sta mietendo vittime, ma anche meritandosi tante maledizioni) , sono di beneficio all’animo .
Di questi tempi grami , non è poco. Proprio per niente.
Grazie a Voi , ALTROPENSIERO ci allevia “quel” pensiero.
CIAO e TANTA SALUTE.
Fiorenzo Alessi