COSA INSEGNA IL NO DI CINCINNATO ALBERTINI

di GHERARDO MAGRI – Il coraggio di Albertini nel dire no a candidarsi (di nuovo) come sindaco di Milano non deve passare inosservato, per varie ragioni.

Per una volta, vengono messe a confronto non solo le opportunità di un ruolo sicuramente prestigioso, soprattutto quando ti vengono a cercare, ma anche le priorità personali e la qualità della vita. Sembra che la ex-first sciura Giovanna abbia fortemente sconsigliato Gabriele a rimettersi in pista: ottima capacità d’ascolto in salsa pari opportunità di gender.

Seconda robustissima motivazione – da ola in curva nord – è il suo messaggio “largo ai giovani”, ritenendosi un baldo settantenne non più adeguato ai tempi. Nel 1997 Albertini aveva 46 anni, quando diventò sindaco, e lui indica come strada maestra cercare un candidato in queste fasce d’età. Meno celebrity e più contenuti. Altra strabuzzata d’occhi, incassiamo volentieri queste belle dichiarazioni-lezioni da un milanese doc come lui. Soprattutto in un momento politico molto delicato per la Lombardia, che dà l’idea di aver esaurito la panchina dei suoi rappresentanti, vedi le ultime chiamate all’esterno over 70, tipo Moratti e Bertolaso.

L’incapacità di esprimere talenti e di valorizzarli è un deficit tipicamente italiano in tutti i campi. Siamo più a nostro agio quando troviamo “geni” sulla nostra strada, che non possiamo disconoscere, ne andiamo fieri, li sbandieriamo a destra e a manca per poi non riuscire ad utilizzarli al meglio. La nostra cultura tende ancora a premiare l’esperienza, l’affidabilità, la tradizione e gli aiutini. Nella politica ad alti livelli non si vedono leader giovani come il francese Macron, il canadese Trudeau e la neozelandese Ardern, criticabili a piacere, ma certamente in grado di innescare nuovi processi e comportamenti più virtuosi di un certo establishment classico e più attempato.

Lo stesso fenomeno lo vediamo nelle successioni delle nostre migliori imprese tricolori, grandi eccellenze mondiali nei propri settori, ma multinazionali “tascabili” rispetto alle altre economie, in termine di taglia. Per vedere avanzare le nuove generazioni non solo bisogna aspettare una lunga e dura gavetta, ma spesso l’elemento che sblocca gli organigrammi sono solo accadimenti “naturali”. Ci vuole troppo tempo, il mondo gira più veloce e le occasioni si sprecano.

Nelle aziende non familiari, pur assistendo a una rotazione più veloce, vige più o meno lo stesso approccio. Una volta esisteva il piano di carriera con tutti i passaggi scanditi da tempistiche rigorose, oggi il cambiamento radicale ha frantumato tutto. Si ragiona in modo diverso. Si attraggono e si coltivano i talenti facendo il massimo per formarli e trattenerli quanto più possibile, questo sì, ma l’attenzione si è spostata su come tenere alta la motivazione e la produttività nel periodo in cui si fa il percorso insieme. Accettando che anche le migliori risorse se ne possano andare, promesse certe non si fanno più. Devo dire che non vengono più nemmeno chieste troppe garanzie, perché l’orizzonte è decisamente più ravvicinato, ma i patti sono decisamente più chiari rispetto al passato.

L’ostacolo più grande però a una vera e sana politica di successione non è tanto il fatto che siamo tutti, chi più chi meno, attaccati alla nostra poltrona, ma è il concetto di unicità e insostituibilità che ci frena. Non riusciamo quasi mai a sganciare il giudizio sulla persona dal suo ruolo: il primo pensiero è che Mario o Giuseppe, con la sua personalità sviluppata nel tempo, l’esperienza accumulata e i risultati raggiunti, abbia plasmato il carattere così bene in azienda che non possa essere riprodotto, né tantomeno sostituito. Vero e sbagliato allo stesso tempo. Vero perché ogni persona ha ed è una storia a sé, a suo modo un unicum, e chiunque altro farà in modo diverso. Sbagliato perché chi arriva dopo, di solito, innova e trova soluzioni mai nemmeno pensate. Dobbiamo abituarci all’idea che niente sarà più come prima, pensando però che potrebbe essere anche meglio.

Gabriele Albertini, nel suo modo elegante e controcorrente, ci sta dicendo indirettamente proprio questo: i giovani saranno più bravi di qualunque persona conosciuta e di successo, però diamoci da fare a cercarli.

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