Annamaria Franzoni è la madre del bambino ucciso a Cogne quasi vent’anni fa, è stata condannata a sedici anni di carcere e ora ricompare a Cogne col marito per trascorrere tre giorni in quella maledetta casa, per trascorrere la notte di San Silvestro e Capodanno.
Senza calcare la mano, tutti fanno riferimento ai festeggiamenti, ai botti – due per qualcuno, spettacolo pirotecnico per qualcun altro – che avrebbero avuto luogo in quella che tutti consideriamo la casa dell’orrore.
Il fastidio è innegabile, la reazione ovvia e scontata è quella che per prima si fa strada nella mente di tutti: ma come, colpevole o non colpevole, quella è la casa dove in modo violento ha perso la vita tuo figlio, come puoi reinventarla spazio per uno scoppiettante veglione?
Morbosamente solleticanti erano i plastici di Bruno Vespa, altrettanto lo sono le allusioni all’inverecondo oblio che i botti, i petardi e i fuochi di fine anno paiono voler stendere sulla lugubre vicenda che ben conosciamo. E che allo stesso tempo non conosciamo affatto.
L’istinto ha portato anche me verso un disgusto immediato, che non è scomparso, ma ha anche fatto spazio a un tentativo di distacco, per provare a non giudicare, a rendere legittima qualsiasi reazione o condotta. Per provare a non condannare o assolvere per scontato scossone emotivo, per evitare di condannare a priori, come verrebbe spontaneo ad esempio condannare un figlio che non piange al funerale del padre.
In fondo che ne sappiamo noi? Quel che sappiamo ha a che fare giusto con la casa, con le vicende macabre, con il turismo macabro in seguito, con i famigerati plastici, con la richiesta della messa in vendita da parte dell’avvocato Taormina per l’insolvenza da parte dei coniugi, per i bengala e i botti di fine anno ora.
Ma del resto che sappiamo? Chi è indifferente, chi è scandalizzato, chi azzarda una timida difesa. Annamaria Franzoni è stata condannata, ma colpevole o innocente che sia, dovrebbe calare l’oblio su questa storia, penosa e opprimente da qualsiasi prospettiva, anche e soprattutto dalla prospettiva dei curiosi e dei guardoni, gli stessi che rallentano il traffico in autostrada per godersi le lamiere accartocciate.
Tutto pare ovvio in questo racconto, la premessa, lo svolgimento, la morale. Eppure, se tutto è così ovvio, perché nulla pare essere al proprio posto, tantomeno noi che ancora non riusciamo a farne a meno?