COME SI FA A CHIAMARLO ANCORA MATRIMONIO

“Credere in Dio mi sembra troppo” scherzò una volta Woody Allen, “Diciamo che lo stimo”. La stessa osservazione, noi che non siamo altrettanto spiritosi, potremmo avanzarla sul matrimonio. Crederci? Diciamo piuttosto che si tratta di un’istituzione stimabile.

E, badate, non è affatto poca cosa “stimare” il matrimonio, nonostante l’espressione a prima vista possa sembrare limitata e sommessa. “Stima” è sostantivo che comprende sentimenti e atteggiamenti di rispetto, considerazione, impegno. Cose, queste, che resistono al tempo, alla corrosione dell’abitudine, alla stanchezza che pervade un’intimità inevitabilmente scontata.

L’impressione, non scientifica ma comunque vivissima, è che il matrimonio oggi lo si “stimi” poco. Lo dimostra il fatto che molte coppie lo affrontano come si trattasse di uno sprint e non di una maratona: si parte col botto, anzi con i fuochi d’artificio di cerimonie hollywoodiane, con bombardamenti di immagini su Instagram in cui gli sposi, in quanto a sfarzo ed esibizionismo, umiliano Liberace e Lady Gaga. E poi elicotteri, ville, piscine e invitati tutti conosciuti nella sala d’aspetto del chirurgo estetico. Finita la festa, finito (o quasi) anche il matrimonio, che in molti casi si scioglie e in altri si prolunga solo per diventare una trappola e, non di rado, un incubo.

Il suo incubo personale, ma chissà perché stranamente familiare ai più, lo ha raccontato in un’intervista una signora di Torino poco dopo la sentenza che ha condannato l’ex marito da tre anni di carcere per maltrattamenti, stalking e danneggiamento. “Per 15 anni”, ha spiegato, “ho vissuto nell’umiliazione delle regole da lui imposte”. Regole piccine e micragnose, come l’ammonimento a “non sprecare le briciole” quando si spezza il pane, divieti arbitrari, come quelli di ballare il tango o di mangiare lo zabaione (“perché è da vecchi”), con l’aggiunta di rimproveri mortificanti e pretestuose correzioni: “Non gli andava mai bene nulla di ciò che dicevo”. Una montagna di meschinità intese a far sentire la moglie priva di valore, indegna di parola, immeritevole di identità.

Perché il matrimonio della signora torinese sia diventato una simile insopportabile palude e altri matrimoni, ogni giorno, si trasformino in esercizi di tortura privata, fisica e psicologica, esplodendo a volte in vere e proprie tragedie, è una domanda che dovremmo farci tutti, ma per primi gli uomini, che detengono quasi in esclusiva il ruolo degli aguzzini.

Forse – è un’ipotesi – siamo arrivati al punto in cui l’amore esiste solo quando qualcuno lo guarda, quando è instagrammabile, quando lo si può esibire come un’auto nuova o una vacanza alle Maldive. Se nessuno guarda e, nella nostra testa, ammira e invidia, allora si spegne, scompare, e, in fatto di sentimenti, non ci restano che quelli più sordidi e idioti: frustrazione, malignità, noia, viltà. I riflettori si riaccendono solo se qualcuno viene trascinato in tribunale e la sua concezione di vita in comune viene finalmente alla luce: a differenza delle briciole del pane, tutta roba che è meglio vada sprecata.Pubblicità

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