COME LA SICILIA SI STA FACENDO SCIPPARE IL TESORO INESTIMABILE DEI GRANI ANTICHI

Dopo circa un decennio dalla ricomparsa in grande stile dei grani antichi, soprattutto in Sicilia, sono (per me) necessarie alcune considerazioni.

Il settore dei grani antichi ha rappresentato e rappresenta (non si sa ancora per quanto tempo) più di una speranza per una minoranza di agricoltori siciliani.

La loro rilevanza dal punto di vista della sostenibilità sociale, ambientale e salutistica è stata dimostrata ad ogni livello; non altrettanto si può dire per quella economica.

Questa criticità emerge sia dal lato della produzione che da quello del consumo.

Gli agricoltori siciliani, duole dirlo, non sono ancora stati in grado di valorizzare un patrimonio di straordinaria importanza, localizzato e custodito nell’Isola grazie alla posizione mediterraneo centrica e alla ricchezza di differenti condizioni pedoclimatiche, che ne hanno esaltato le doti di ambientamento, creando le condizioni per la genesi di una eccezionale varietà genetica, anche se delle 298 “popolazioni locali” presenti nel 1927, oggi ne restano conservate e riprodotte solo una cinquantina, grazie all’eccezionale lavoro della Stazione di Granicoltura di Caltagirone.

La difficoltà nell’intraprendere un percorso virtuoso di filiera sono molteplici e di varia natura.

I produttori, purtroppo, non sono ancora stati in grado di organizzarsi per poter concentrare l’offerta e di conseguenza non sono in grado di giocare un ruolo determinante nel processo di formazione dei prezzi.

Si va in ordine sparso, con la presunzione di poter fare tutto da soli.

Malgrado una domanda in lenta ma continua ascesa, coltivare grani antichi in Sicilia continua ad essere una scommessa.

Diversi agricoltori non hanno ben compreso che le regole del settore sono ben diverse da quelle del settore cerealicolo abituale: è come se ci presentasse con delle racchette da ping pong per giocare a tennis.

L’approccio al settore dei grani antichi deve essere differente.

In assenza di una filiera riconosciuta e trasparente, coltivare tanto per farlo non paga, in termini economici e prospettici.

Trovarsi con un prodotto che non può essere mistificato con i grani moderni, con le relative e conseguenti difficoltà di vendita, restituisce solo un senso di frustrazione, determinato dall’assoggettamento a soggetti quali i mugnai ‘convenzionali’, per i quali i grani antichi rappresentano una percentuale marginale del proprio volume d’affari, se non un vero e proprio fastidio.

Purtroppo l’incapacità e l’inconsapevolezza di possedere, tutelare e valorizzare adeguatamente un prodotto unico, ha aperto la strada a scorribande di produttori e trasformatori d’oltre Stretto che, dopo aver fiutato la preda, stanno realizzando le condizioni per appropriarsene definitivamente.

Eclatante in tal senso è l’esempio del Perciasacchi, il più versatile dei grani antichi siciliani, oggetto di appetiti da parte di imprenditori non siciliani, che hanno fatto una forzatura, anche legislativa, per istituire un “Registro volontario dei turanici” e aprire la strada alla sostituzione del più caro e meno sostenibile Kamut.

Viene da chiedersi chi ha aperto le porte all’invasore offrendo su un piatto d’argento, o meglio per un piatto di lenticchie, la base genetica (centinaia di quintali di seme) su cui importanti aziende continentali hanno costituito la loro base genetica. La colpa non è mai solo degli “altri”.

D’altronde i siciliani non sono neanche i legali proprietari dei termini “Timilia”, “Maiorca” e tanto meno “Grano antico”, di pertinenza di un’azienda veneta; quasi dobbiamo chiedere la cortesia per poterli usare.

Figurarsi se siamo stati in grado di mettere un mantello di protezione a questi prodotti, che si chiami, DOP, IGP, etc. Qualcuno ha lanciato l’ottima idea di attribuire il patrocinio dell’UNESCO ai grani siciliani e alla Stazione di Granicoltura, sarebbe un colpo veramente inimitabile.

Così come non si è stati in grado di avviare una strategia di informazione e marketing che giustifichi la differenza di prezzo tra i prodotti a base di grani antichi e gli altri.

Purtroppo l’eccessivo costo dei grani antichi (causato da molteplici e giustificati motivi) determina un restringimento della base dei potenziali acquirenti, oggi questi prodotti sono di fatto riservati a un pubblico alto spendente, informato e attento alle qualità salutistiche.

Manca anche un’adeguata attenzione delle istituzioni al finanziamento della ricerca in questo settore, in attesa di una definizione univoca del termine “grani antichi”, ad oggi non conosciamo neanche le proprietà qualitative di tutte le popolazioni siciliane. Potremmo, ad esempio, possedere una varietà che permetta di fare la migliore pasta del mondo, ma non lo sappiamo.

Sapete chi ha speso più fondi per la ricerca sui grani antichi in Italia? La Kamut Enterprises.

C’è bisogno di aggiungere altro?

Non ci sono tracce di una regia istituzionale che coordini iniziative pubblicitarie e informative che, sono certo, potrebbero creare le condizioni per una crescita esponenziale della richiesta di questi prodotti, ma evidentemente non importa niente a nessuno.

Ma d’altra parte non si segnalano moti di sommossa da parte dei coltivatori e trasformatori siciliani, evidentemente il proprio orticello basta e avanza.

Così, trascinati dall’indolenza siciliana, si tira a campare, fino a quando la scaltrezza e l’organizzazione d’oltre Stretto farà svanire anche questa speranza, ripetendo quanto fatto nel 1866 con il riso siciliano.

La storia, a noi siciliani, non ha insegnato mai nulla.

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