Ma non è sempre così. Qualche anno fa una signora, molto colta e sinceramente bisognosa d’aiuto, alla mia richiesta, peraltro banale e scontata: “Mi parli adesso del rapporto con sua madre”, mi rispose indispettita: “Si faccia i fatti suoi!”
Certo, se durante il mio lavoro mi facessi solo i fatti miei, non si andrebbe da nessuna parte, ed è inevitabile che io debba conoscere gli avvenimenti e le relazioni più significative dei miei pazienti, per poter essere utile in qualche modo. In certi casi, è potente l’effetto liberatorio quando si raccontano esperienze vissute che non si è riuscito o voluto dire a nessuno. In questi casi io dico che i segreti vanno raccontati, ma solo a poche persone, delimitando un ambito molto privato in cui tuttavia è preferibile che, di tanto in tanto, accordiamo a qualcuno il permesso di entrare.
Eppure, a modo suo, la signora aveva ragione. Non è mio compito condurre un’indagine investigativa o accertare la veridicità dei fatti. Non si tratta di trovare le prove che confermino le mie ipotesi. E’ molto più importante creare un clima di ascolto, di interesse reale, di partecipazione emotiva.
Sapete come è andata a finire? La signora, a distanza di anni, la vedo ancora di tanto in tanto. Non dico che siamo diventati amici, questo non avviene nel mio lavoro, ma abbiamo una consuetudine. E fu lei, dopo un po’ di tempo, a parlarmi della madre, senza che io facessi più domande.