COME CRISTOFANO, IL FIGLIUOLO DEL ‘600, VINSE LA PESTE

Siete stupiti delle dispute dei virologi sul Covid e dintorni o delle proteste dei No vax? Vi meraviglia che qualcuno approfitti dei sostegni economici pubblici offerti per alleviare i danni della pandemia? Leggete “Cristofano e la peste” (Il Mulino, Bologna, 1976), il godibilissimo (ma non meno rigoroso) saggio dello storico dell’economia Carlo Maria Cipolla sull’epidemia del 1629-30 a Prato.

Vi accorgerete non solo che tutto il mondo è paese (Prato oggi ha una numerosa comunità cinese, ma è pur sempre italiana), ma anche che 400 anni non hanno cambiato molto le cose. Facciamo prima a dire la principale differenza: non c’erano i vaccini (e quindi neanche i no vax), mentre oggi li abbiamo trovati rapidamente (sia i vaccini sia i no vax), e la soluzione era affidata alla preghiera: “Si è provato con esperienza che a spegnere il contagio prima fa bisogno ricorrere alla Maestà di Dio, alla intercessione della Beatissima Vergine e de’ Santi”.

Da qui in poi le misure adottate allora non sono tanto diverse da quelle odierne, ovviamente con qualche variante dettata, per esempio, dalla tecnologia: il green pass non era sul telefonino, ma se volevi muoverti da casa tua dovevi avere la “bolletta”, il passaporto sanitario (perché non chiamare così anche la certificazione informatica?).

E naturalmente non mancava chi si ribellava a questa restrizione e le guardie avevano il loro bel daffare a catturarli e punirli. Così come il confinamento, l’obbligo di stare in casa, le raccomandazioni per l’igiene (che forse nel XVII secolo era perfino più scarsa di quella di oggi). Tutti precetti che dovevano essere imposti con la forza e quindi la restrizione dei commerci e dei viaggi era attuata mettendo i soldati alle porte della città e agli snodi viari più importanti. Evocano le immagini dei blocchi nei dintorni di Codogno e di Alzano Lombardo.

Ma chi era Cristofano, o per essere più precisi Christofano di Giulio Ceffini? Era il Generale Figliuolo dei pratesi. Sì, proprio Figliuolo, quello bravo, non il chiacchierato Domenico Arcuri. Perché anche nella Toscana del Tardo Rinascimento non mancavano i bricconcelli che cercavano di approfittare dei vantaggi delle cariche pubbliche e soprattutto del gran movimento di denari attivato per fronteggiare la pandemia. Cipolla ci dice di alcuni predecessori di Cristofano allontanati per incapacità o per ingordigia. Allo scoppio dell’emergenza, vennero subito nominati dei nuovi ufficiali di sanità ma, vuoi per imperizia, vuoi per il disorientamento causato dalla nuova condizione, non riuscivano a districarsi fra le mille necessità di ogni giorno, impelagati anche loro da una burocrazia che oltre a essere di per sé complessa era rallentata dai tempi di trasmissione delle comunicazioni. Firenze, capitale del Gran Ducato, dista solo 20 chilometri da Prato, ma un messaggero a piedi impiegava non meno di 4 ore a recapitare una lettera. Andava meglio a cavallo, ma non sempre i mezzi di locomozione equini erano disponibili.

Di famiglia borghese e discretamente agiata, Cristofano si è distinto per i suoi meriti e per aver gestito con razionalità un periodo molto complicato. Per tornare alle analogie con il XXI secolo, c’era un problema di scarsità di materiali anche di prima necessità con cui approvvigionare gli spedali, e il potere centrale (Firenze) non era generoso con la provincia. Bisognava individuare le strutture dove collocare i malati e, poi, i morti. Prima l’ospedale della Misericordia, poi quello di San Silvestro e infine il Convento di Sant’Anna al di fuori della cinta muraria. Tacendo di quel tal nobile che, per non vedersi sottratta una delle ville fuori città per ricoverare gli ammalati, si finse quasi nullatenente.

Tanti furono gli abusi che si verificarono anche all’epoca. Siccome le case dove c’era stato un morto venivano chiuse per 22 giorni e gli abitanti erano sovvenzionati con un Giulio al giorno per bocca, non furono pochi coloro che non comunicarono le guarigioni o altre morti per continuare a intascare i contributi. O gli amministratori degli ospedali che nascondevano i decessi per continuare a incassare la retta o che, comunque, fornivano suppellettili e vettovaglie insufficienti o scadenti ai pazienti. Non stupirà nemmeno che i medici discutessero animatamente sui rimedi da applicare e sulle misure da prendere, proprio come i virologi del 2020. E dire che i primi non avevano neanche i talk show e le televisioni dove fare bella mostra di sé.

Cristofano fu più corretto e financo impopolare. Si espose fortemente verso Firenze per avere più risorse, ma al contempo tagliò i sussidi a coloro che potevano sostentarsi da soli. Non si macchiò di ruberie o di vantaggi personali e si accontentò di una modesta retribuzione: 8 scudi al mese, il salario di un becchino. Anzi, ci dice Cipolla, il salario dei becchini aumentò perché ce n’era molto bisogno e sempre meno erano disposti a farlo (la legge della domanda e dell’offerta non l’hanno inventata i moderni capitalisti).

Alla fine della sua opera, il 6 maggio 1632, Cristofano ricevette dal suo Comune una bella “recognitione” verbale, senza alcun donativo. Cristofano era sì una brava persona, ma non disdegnava la moneta. Si diede da fare, mosse mari e monti e, dopo una lunga negoziazione, conseguì un premio di 15 soldi, “per farsi un vestito e abbruciarsi quello che portava mentre serviva da cerusico per la Sanità”.

Insomma, la peste del ‘600 ha visto la mobilitazione di spiriti generosi e di grandi somme, ha eccitato gli istinti di vanità e ingordigia come quelli di solidarietà, ha visto chi si è impoverito e chi si è approfittato. Anche quella volta le vicende umane, anche le più tristi e drammatiche, si sono intersecate con interessi e appetiti economici.

La morale? Non ho una morale da proporvi. Mi piacerebbe che riflettessimo sulle analogie e le differenze fra allora e oggi. Qualche insegnamento lo potremo sicuramente trarre.

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