COLAO, IL FLOP MANAGER

di GIORGIO GANDOLA – Prima c’erano troppi uomini, poi c’erano poche donne e alla fine è scomparso lui. Vittorio Colao, chi era costui? La task force dei 17 (numero pericoloso) che dovevano far ripartire l’Italia non solo non è mai decollata, ma è letteralmente scomparsa. Inghiottita come Atlantide, evaporata con la prosopopea che l’aveva accompagnata, azzerata da virologi in competizione, commissari speciali, governatori sceriffo, ministri tornati a litigare.

Nell’Italia del ballatoio permanente un manager che sta a Londra chiuso in casa («per non perdere tempo con i viaggi») non poteva avere chance. E infatti il messia è diventato un fantasma. È il destino dei salvatori della patria. Quello di Colao si è consumato nell’ultima videoconferenza plenaria di una settimana fa, nella quale Giuseppe Conte avrebbe dovuto raccogliere materiale concreto da inserire nel prossimo decreto. Dopo due ore e mezza di attesa, i luminari della ripartenza e della ripresa economica (nella task force sono rappresentati tutti tranne gli imprenditori) hanno cominciato a elencare progetti. E il premier a non ascoltarli.

Distratto dalla polemica con le regioni sulle ripartenze, Conte ha trascorso i 25 minuti concessi a Colao a rispondere al telefono, sempre più visibilmente infastidito dall’approccio teorico degli interlocutori. L’ex guru di Rcs e Vodafone ha elencato i capitoli chiave dei prossimi mesi. Riduzione del sommerso per le aziende, immissione immediata di liquidità con l’anticipo del saldo da parte della pubblica amministrazione, rinegoziazione dei canoni commerciali, accelerazione sulle infrastrutture, digitalizzazione seria e profonda della pubblica amministrazione dopo la figuraccia dell’Inps. Temi scottanti, da prevedibile disfida di Barletta politica in Parlamento, quindi indigesti se buttati lì come bombe a mano a caratterizzare la Fase 2.

Così, mentre Colao parlava, Conte telefonava. Alla fine il premier ha preso la parola e ha gelato la task force più pubblicizzata dai tempi dei 300 alle Termopili. «Bene, se avete qualche idea più specifica, discutiamola per inserirla nel prossimo decreto. Mettetevi in contatto con i miei ministri». Clic, comunicazione chiusa, addio. Trattato come un indispensabile fastidio. A quel punto il potenziale messia ha capito tutto. Descritto come uomo di sport e di fatica, avvezzo alle scalate dolomitiche in bicicletta per sentirsi in sintonia con la natura circostante, ha immediatamente tradotto il grido che arrivava dal silenzio: «Qui non ci fila nessuno». Le voci dentro Palazzo Chigi riportano che a questo punto vorrebbe chiudere la collaborazione e togliere il disturbo. Della serie: Fase 3, facciamola finita.

La scelta di Colao arrivò nel pieno della pandemia, quando non c’era nessuna idea su come far ripartire il Paese in quarantena. La nomina fu caldeggiata dal presidente della Repubblica in persona e Conte, che già stava inguaiato fra zone rosse e mascherine, aderì con entusiasmo nella speranza di togliersi dalle spalle una buona fetta di responsabilità in caso di fallimento.

Poi il picco del contagio è arrivato, la curva ha cominciato a scendere, la speranza a prendere corpo. E quel supermanager che dava indicazioni da Oltremanica è sembrato secondario, non più depositario della verità e della strategia. Insomma, se lo sono dimenticato a Trafalgar Square da dove, per qualche tempo, ha continuato a mandare segnali come il comandante Raimundo Navarro dallo spazio ai tempi di Alto Gradimento. La storia sembra la replica di quella al Corriere della Sera: partenza da top manager che risolve problemi, arrivo da invisibile in fondo a sinistra con i dossier rivoluzionari nei cassetti.

Così si compie il destino della suprema task force e del suo condottiero degradato. Solo un mese fa doveva sconfiggere il virus, oggi è un guscio vuoto che galleggia a vista. In attesa dei saluti finali e di venti minuti di commiato da Fabio Fazio.

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