“Avrei potuto ambientarlo nella mia Inghilterra o in qualsiasi altro luogo, in qualsiasi altra democrazia, ma gli USA sono il luogo dove certe cose sono esacerbate: la demonizzazione dell’avversario politico, le armi da fuoco in mano ai privati, guerre combattute a colpi di macete che hanno fatto decine di migliaia di vittime”.
Un’altra frase inquietante del regista Alex Garland, parlando del suo film “Civil war”, ha anche un forte retrogusto europeo: “L’assunzione di entrambe le parti di una posizione di presunta superiorità etica che squalifica la parte avversa e impedisce ogni confronto, allargando sempre più le divisioni”.
Nella trama di quella che la critica ha definito la pellicola più provocatoria dell’anno, è in corso (in America ai giorni nostri) una cruenta, sanguinosa guerra civile. Un giovane giornalista con un suo collega anziano ed esperto, Joel e Sammy, le due fotografe Lee (veterana) e la novizia Jessie, partono da una New York devastata dal terrorismo e dalla carestia per recarsi a Washington con l’obiettivo di intervistare il Presidente. Durante il loro viaggio si imbatteranno in terrificanti atrocità, delitti crudeli e sanguinari senza scrupoli. Non c’è alcun fronte di battaglia: ci si ammazza casa per casa, campo per campo, città per città.
Una delle tanti doti di “Civil war” è mascherare le fazioni, nascondere la natura dei conflitti, mantenere i quattro protagonisti rigorosamente super partes: sono neutrali, non stanno da una parte o dell’altra benché – appunto – non siano in alcun modo definite. Ecco perché, al di là del profondo significato sul degrado delle democrazie, della pace, dei valori e del rispetto tra cittadini della stessa patria, personalmente ho apprezzato in modo particolare l’abnegazione, il coraggio, la ferrea imparzialità dei quattro giornalisti. Sono tornato al sapore antico di questo mestiere – degradato come la democrazia sotto accusa – e alla mia gioventù in cronaca nera, passata tra vittime di assassini, incidenti, fatalità, calamità. Avevamo e ci attenevamo a regole ferree di comportamento e di linguaggio, avevamo maestri, ci nutrivamo di adrenalina. Con un chiaro e inderogabile senso del dovere.
Joel, Sammy, Lee e Jessie documentano tutto, senza distinzioni, senza scrupolo, senza meccanismi di autodifesa. Aggregati alle milizie, coinvolti dai ribelli, mischiati a cani sciolti senza scelta in un percorso che non offre alcuna spiegazione, alcuno slogan: solo orrori, violenza, brutalità in paesaggi e atmosfere surreali che oggi sul pianeta sono più che mai (eccome) reali. Il distacco dalla faziosità rende i protagonisti lucidi, reattivi, solidali.
La successione degli eventi è incalzante, sempre più violenta, con i tratti spaventosi delle guerre ormai non più combattute tra eserciti, in trincee, ma sulla pelle dei civili e con terroristi kamikaze disposti a tutto: esattamente come nei conflitti in corso nella triste attualità planetaria che ben conosciamo.
Il finale spettacolare non lascia molto spazio all’ottimismo. Questa è l’umanità di oggi, questo è lo sprofondo buio in cui il mondo è immerso. E questo è il giornalismo che lo porta nelle nostre case, non sempre così freddo e corretto, imparziale, democratico come dovrebbe essere, appunto.