CINA E COREA IN GINOCCHIO DAL CAPO

di MARIO SCHIANI – Qualcosa di nuovo sul fronte orientale. Anzi, d’antico. Perdonate questa maldestra (doppia) citazione letteraria. La butto lì perché vorrei tentare una sintesi di quanto sta accadendo in Cina e in Corea del Nord, ovvero in quei Paesi dell’Estremo oriente dove il comunismo, declinato in modi diversi, continua a produrre qualcosa che conosciamo bene: la figura del leader supremo che, dall’alto, detta la linea e ribadisce l’importanza assoluta dello Stato e, naturalmente, di se stesso.

Di recente il coreano Kim Jung-un è riapparso in pubblico in due occasioni. Meglio ancora, si potrebbe dire che solo una parte di esso è riapparsa, poiché il leader è sembrato parecchio smagrito. Circostanza che, secondo la televisione di Stato, ha preoccupato non poco la popolazione. «Ci ha rattristato vederlo così emaciato» ha detto uno degli intervistati, «tutti abbiamo incominciato a piangere».

Se qui da noi non si perde occasione per contestare ai politici ogni privilegio vero o presunto, laggiù evidentemente spiace ritrovare il capo un poco sciupato anche se, per paradosso, a far la dieta, quella della miseria, è da decenni la popolazione. Eppure, Kim ha sorpreso il mondo facendo riferimento proprio alla carenza di cibo provocata dalla scarsa produzione agricola e dal blocco delle importazioni dovuto alla pandemia. In una successiva occasione pubblica, Kim ha invece fatto cenno a un «grave incidente» legato al coronavirus che avrebbe provocato nel Paese «una grande crisi». Due diretti accenni a problemi concreti che hanno stupito gli osservatori, abituati alla impenetrabile retorica del regime.

Nonostante questa improvvisa svolta nella comunicazione, non è certo il caso di parlare di “glasnost” alla coreana. Quale che sia il livello dei contagi in Corea – non esistono cifre attendibili -, il leader ha fatto uso del «grave incidente» per attaccare alcuni funzionari del Partito, definiti «incapaci e irresponsabili». Nessuna riforma alle viste, dunque: probabilmente solo una purga.

Che la Corea del Nord sia impermeabile a qualunque cambiamento lo dimostra il suo fondamentale assetto istituzionale. Come per primo fece notare Christopher Hitchens, stiamo parlando di un caso praticamente unico di “necrocrazia”: Kim Jong-il, padre dell’attuale leader, defunto nel 1994, detiene ancora la carica di “presidente eterno”. Un Paese che si affida a una simile conduzione familiare dello Stato, capace di estendersi oltre il limite della morte, offre ben pochi margini a ogni operazione di auto-riforma.

Così come ben poche speranze di cambiamento interno sembra ammettere la Cina. Certo, l’atteggiamento dei due Paesi nei confronti del resto del mondo è molto diverso. Chiusura e isolamento nel caso della Corea, crescente peso negli scambi commerciali in quello della Cina. Entrambi i Paesi mantengono però ben chiara la filosofia di fondo: lo Stato è tutto, chi non si identifica con esso, e osa criticare chi lo amministra, è un nemico o, peggio ancora, un traditore colluso con le subdole “forze straniere”.

Nel suo discorso per i cento anni del Partito comunista cinese, il presidente Xi Jinping ha ripetuto un ritornello familiare: «La Cina è ora una potenza mondiale e mai più sarà maltrattata dagli stranieri (in particolare dagli occidentali, ndr) come accadeva nell’era del colonialismo». In questo concetto è portata a sintesi la forza e la debolezza della Cina attuale, in grado, da una parte, di presentare straordinari risultati in fatto di crescita economica e di influenza internazionale, ma dall’altro ancora incapace di negare una paura di fondo: quella di non essere “all’altezza” dell’Occidente, di non venir “presa sul serio”. Una debolezza che si crede doveroso mascherare con un linguaggio fiero e aggressivo e soprattutto ostentando il legame con il passato: nel presentarsi al discorso per il centenario, Xi ha voluto indossare una giacca in stile-Mao. Un modo per rivendicare la continuità dell’azione del Partito, ignorando i suoi tanti inciampi storici, le carestie provocate dal Grande Balzo in Avanti, gli eccessi della Rivoluzione Culturale, il sangue della repressione di Tienanmen.

Davanti al mondo, Xi presenta la sua Cina come l’unica possibile: legata ai destini del Partito (che controlla con mano ferma) e decisa a respingere ogni critica esterna etichettandola come “atto ostile”.

Sia pur con modi e slogan diversi, Cina e Corea perseguono lo stesso obiettivo: l’isolamento a protezione dello status quo politico. La Cina apre solo al “business” al quale, in virtù della vastità del suo mercato e della sua capacità di produzione, sempre più riesce a imporre condizioni; la Corea in virtù di una folle narrativa paternalistica tenuta in vita da un delicato equilibrio geopolitico e militare.

Esempi che, visti da fuori, convincono che un futuro di pace e stabilità va cercato nei modelli opposti: nel dialogo e nella cooperazione, da alimentare magari a costo di qualche dolorosa rinuncia alle singole pretese nazionalistiche. Se non vi piace la parola “globalizzazione” troviamone pure un’altra: l’obiettivo resta quello di tenere alla larga i padri-padroni dello Stato.

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