CHI SPARA A PALLETTONI SULLA DEMOCRAZIA

Basta scorrere le note di agenzia trasmesse dall’Ansa per sentirsi immediatamente rassicurati: dichiarazioni di “ferma condanna” per l’“inaccettabile” assalto alle sedi istituzionali brasiliane perpetrato dai seguaci di Bolsonaro piovono da ogni angolo della società civile italiana. Dal Pd a Forza Italia, da Cgil-Cisl-Uil a Acli, da Avs a FdI, da 5Stelle a Più Europa. Tutti d’accordo su quel che è accaduto a Brasilia, meno compatti sulla situazione a sud di Ponte Chiasso, ma non si può pretendere il miracolo.

Diciamo che chi sta nel Palazzo non gradisce gli assalti al Palazzo medesimo, fossero anche quelli diretti ai Palazzi altrui. Lo si può capire e si può sospettare un interesse personale, ma almeno questa volta siamo d’accordo con loro. La folla che si scatena contro i simboli – i luoghi anzi – della democrazia spaventa per più ragioni.

Una di queste sta nel riscontro dell’esattezza dell’analisi proposta da Elias Canetti nel suo monumentale studio “Massa e potere”: la folla, superato di slancio il tabù che impone a ogni individuo di prendere le distanze dagli altri individui allo scopo di preservare la propria identità, diventa un corpo solo – “denso”, scrive Canetti – nel quale presto si verifica il fenomeno della “scarica”, l’annullamento improvviso di ogni differenza tra i singoli componenti della folla che da quell’istante si sentono uguali tra loro indipendentemente dalle differenze – sociali e culturali – che in precedenza li caratterizzavano. E qui la folla sfoga la sua raggiunta uniformità nella distruzione di simboli del potere che, a quel punto, è facile trovare ostili: statue, bandiere e, come è accaduto a Brasilia –  ma anche a Capitol Hill – edifici. Questo meccanismo, individuato da Canetti nel suo testo pubblicato nel 1960 dopo decenni di elaborazione, è destinato a ripetersi ogni volta che si creano le condizioni per cui l’individuo è portato – “spinto”, bisognerebbe dire – ad accantonare cura e rispetto della sua singolarità – e con essa raziocinio, analisi, obiettività – per confluire nella massa “densa”.

Questa è la prima ragione per cui l’assalto di Brasilia spaventa. La seconda sta nella constatazione di quanto fragili siano le impalcature della democrazia, non solo in Sudamerica, continente non da oggi turbato da instabilità (appena nello scorso dicembre il Perù è stato teatro di un fallito colpo di Stato), ma ovunque nel mondo: perfino negli Stati Uniti e certamente anche in Europa. I meccanismi democratici, dopo tutto, sono frutto di razionalità e stanno in piedi grazie a patti sociali, di reciproco rispetto, che la folla incendiata dalla convinzione – spessissimo sbagliata, come in Brasile – di dover riparare a un torto subito, di fare giustizia e di agire in nome della libertà (con un uso avventato di parolone nobili che tanto bene ci stanno negli slogan) non esita a calpestare, distruggere, cancellare.

Il risultato, anche quando l’ordine è ristabilito, è comunque devastante. Nel caso del Brasile, si parla di 1.200 persone arrestate in virtù del decreto di emergenza emesso dal presidente Lula. Provvedimento forse inevitabile, ma che certo non aiuterà a consolidare il fragile sentimento democratico del Paese.

Tutto questo deve condurci a una considerazione: il linguaggio della politica non può arrivare al punto di provocazione, distorsione della realtà e uso incendiario della retorica da rischiare di portare la massa al punto critico così lucidamente individuato da Canetti. Non si chiede ai politici di tornare al gergo oscuro, elusivo, autoreferenziale che ha caratterizzato, per esempio, alcuni anni della nostra storia, ma occorre che si liberino e ci liberino dall’equivoco: la violenza verbale, il disprezzo per le regole, lo slogan rozzo non equivalgono né a franchezza né a sincerità. Sono invece armi che i caporioni più spregiudicati usano liberamente pur conoscendone la pericolosità. E’ inutile che Bolsonaro neghi oggi il suo diretto coinvolgimento con la rivolta: anche fosse, è quel che ha detto prima che l’ha innescata, è il suo rigetto della sconfitta che l’ha resa possibile.

Forse, dovremmo arrivare ad ammettere che la democrazia è un concetto fragile al punto da essere impossibile e che Platone non aveva tutti i torti quando, nella “Repubblica”, concepiva una città governata da un ristretto gruppo di filosofi, unico argine possibile, faceva notare, alla tirannide. Piccolo prezzo da pagare all’intelligenza al governo, l’esclusione dei più da ogni potere decisionale.

Nessuno in realtà vuole arrivare a proporre il modello di Platone. Prima di dichiarare fallimento, il consesso umano dovrà bene insistere nella sfida di estendere a tutti la responsabilità della gestione collettiva: non si concepisce progetto più nobile. Non ci si arriverà tuttavia con le parole che tanti politici usano oggi: nei tweet, nei comizi, nelle interviste lampo rilasciate per strada. Ridiamo, ormai, quando qualcuno ammonisce con sussiego dicendo “Abbassiamo i toni”. Eppure, dietro a quel che è diventato un luogo comune c’è forse la nostra unica speranza di progresso.

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