Il carcere di Como? Un capolavoro. Da fuori, a prima vista non si direbbe. Il solito blocco di cemento circondato da mura e torrette, piantato in mezzo a ciò che resta della campagna di periferia. Il capolavoro sta dentro ed è innanzitutto un’idea.
L’idea è quella, forse non del tutto inedita ma comunque a suo modo rivoluzionaria, di portare l’arte contemporanea a contatto con il mondo carcerario, anzi di farle fare da ponte tra il mondo “dentro” e quello “fuori”. Una mostra, dunque, allestita proprio negli spazi della casa circondariale che, a Como, tutti conoscono come “il Bassone”. In questo modo, chiunque vorrà vedere la mostra dovrà anche “vedere” il carcere, fissare lo sguardo sulla sua realtà fisica e sulla sua organizzazione, intesa a contenere i corpi ma anche, almeno nei principi, a rieducare le persone.
Stai a vedere dunque che la mostra nel carcere del Bassone potrebbe ottenere uno scopo duplice: recuperare alla vista e alla coscienza di chi sta fuori la realtà della prigione, troppo spesso ignorata e rimossa, quando invece la situazione carceraria italiana è quasi ovunque allarmante e segnala un pericoloso deficit nel grado di civiltà del nostro Paese, e offrire ai detenuti, almeno ad alcuni, l’occasione di partecipare a un processo creativo, conoscere artisti, vederli all’opera, addirittura collaborare con loro.
La mostra si intitola “Corpo a corpo” e dopo essere stata presentata alla stampa e agli addetti ai lavori sarà aperta al pubblico dal 15 febbraio al 29 marzo. Le modalità di accesso, per ragioni ovvie, non possono essere quelle usuali. Le visite sono programmate per il 15 febbraio, l’1 il 15 e il 29 marzo. Occorre prenotarsi inviando una mail a [email protected]: si riceverà il modulo da compilare per ottenere il permesso di accedere all’istituto.
“Corpo a corpo” aspetta dunque visitatori e li aspettano anche i detenuti delle tre sezioni – maschile, femminile e transgender – che hanno partecipato all’iniziativa e che faranno da guida. La prova generale, davanti a stampa e autorità, è andata benissimo, compresa la naturale emozione di alcuni di loro, di colpo al centro dell’attenzione per motivi non giudiziari.
Nata per propulsione della Fondazione Como Arte (presidente Paola Re, vicepresidente Chiara Anzani) che ha preso spunto dal padiglione del Vaticano alla Biennale di Venezia, allestito nella sezione femminile della Giudecca, e curata da Giovanni Berera, la mostra ha ottenuto l’indispensabile e attiva cooperazione del carcere, in particolare del direttore Fabrizio Rinaldi e del comandante del corpo di Polizia penitenziaria Maria Manzella e del suo vice Domenico Rondinelli.
Gli artisti coinvolti sono di profilo internazionale; tra gli altri Giulia Cenci, Pietro Terzini, Maurizio Bonfanti, Santiago Serra, Mario Consiglio e Marinella Senatore. Si sono espressi sul tema del corpo: imprigionato, costretto – detenuto, appunto – il corpo rimane tuttavia l’ultima possibilità di espressione per chi è in carcere; lo strumento per reclamare la propria presenza, la necessità di essere visto, giudicato magari, ma considerato come essere completo e non come numero di matricola.
Di certo non ha trattato da numeri di matricola l’artista Jaime Poblete che, in una serie di laboratori tenuti da settembre 2024 a gennaio 2025, ha infine prodotto l’opera “¿Qué hay en el fondo de tus ojos?” proprio in collaborazione con alcuni detenuti, fotografati con il volto parzialmente nascosto da maschere realizzate nel carcere, a interrogare lo spettatore sull’identità profonda di chi le porta, sostituita dal giudizio (e dal pre-giudizio) che tocca a chi ha subito una condanna.
“Il reinserimento dopo il periodo detentivo è possibile se si incomincia a vedere il carcere non più solo come un luogo di punizione, ma come una realtà fatta anche di comprensione, consapevolezza, recupero, speranza, possibilità e voglia di tornare a vivere. L’arte, in questo, può aiutare moltissimo”: così, a conclusione del percorso, si sono espresse Paola Re e Chiara Anzani di Fondazione Como Arte.