CE L’HANNO FATTA: ZITTITA LA VOCE LIBERA DI HONG KONG

di MARIO SCHIANI – “Buona fortuna e addio”. Quel che non han potuto fare arresti e minacce, han fatto i soldi. O meglio, la mancanza dei soldi. Con i depositi bancari congelati e nessuna possibilità di pagare dipendenti e fornitori, l'”Apple Daily”, il quotidiano di Hong Kong che con più fermezza si è schierato contro gli attentati alle libertà democratiche della città, ha dovuto chiudere i battenti. Il giornale di Jimmy Lai, l’editore attualmente in carcere a causa di una serie di condanne per “assembramenti illegali”, ovvero di proteste contro le violazioni della dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984 sull’autonomia dell’ex colonia a partire dal 1997, esce di scena con il botto: l’ultimo numero – una lettera di 12 pagine di saluto e ringraziamento ai cittadini – è stato stampato in una tiratura mostruosa, un milione di copie.

Per quanto straordinaria sia questa prova di forza, la chiusura dell'”Apple Daily” rappresenta una svolta di grande importanza, dal punto di vista pratico e anche simbolico: si tratta del segno più evidente della “normalizzazione” cinese scesa sulla città, in teoria protetta da una Basic Law che garantisce libertà di stampa e di opinione, nonché una forma sia pure limitata di partecipazione diretta alla scelta dei governanti locali, ma in pratica costretta a pesanti limitazioni circa il diritto di parola, sottoposta all’influsso della propaganda nelle aule scolastiche e universitarie, beffata dalla preselezione dei candidati che aspirano a una carica pubblica (che devono assicurare per legge requisiti di “patriottismo”, ovvero di fedeltà al volere di Pechino) e intimidita in qualunque espressione di dissenso: nella sua vaghezza, la nuova legge sulla Sicurezza nazionale può essere interpretata a piacere da chi governa e intrappolare chiunque è governato.

Hong Kong si aspetta ora di uscire dalla pandemia e di ritrovare il suo status di hub finanziario aperto agli scambi internazionali in virtù di normative molto liberali e di una reputazione di serietà e affidabilità economica. Gli indicatori internazionali segnalano però che questa reputazione è perduta, probabilmente per sempre: agli occhi dell’Occidente, Hong Kong è ormai una città cinese come un’altra. Può darsi sia conveniente investirvi, ma si deve essere preparati al fatto che lo Stato sarà un giocatore al quale è concesso il privilegio di avere tutte le carte in mano. Imposta per assicurare il “benessere e la stabilità” della città, la legge sulla Sicurezza garantisce soltanto la stabilità di chi comanda per volontà del potere centrale. Tutto il resto è bollato come “interferenza delle potenze straniere”.

Intanto, dalla pandemia non sarà facilissimo uscire. Non perché i contagi siano alti, non lo sono mai stati, grazie alla disciplina sanitaria dei residenti, quanto perché la campagna di vaccinazione procede a rilento, nonostante gli sforzi di convincimento operati dal governo locale che ha perfino messo in palio un appartamento per invogliare i cittadini a farsi fare le punturine. La sfiducia conclamata dei cittadini per l’autorità ha tuttavia provocato una risposta molto fredda, il che ostacola il piano di riapertura (con la rimozione dell’obbligo di quarantena per chi arriva in città) programmato dal governo. Finirà che ci diranno che tutto va bene e che siamo di nuovo benvenuti a Hong Kong, specie se portiamo una valigia piena di soldi. Tanto, ad accertarsi se è proprio tutto vero l'”Apple Daily” non ci sarà più.

 

 

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