C’E’ CHI E’ TRATTATO PEGGIO DELLE DONNE: LE SUORE

“Siano sottomesse le mogli ai mariti” (Efesini, 5,22-33) ci è piaciuta. Ci è piaciuta molto. L’abbiamo trasformata in “sia sottomessa la donna all’uomo” e l’abbiamo presa alla lettera un po’ tutti, dai cristiani ai talebani, dall’America all’Africa senza troppe distinzioni tra famiglia, società e tribù.

Ci attenessimo sempre ai moniti delle Scritture come al quel passaggio della lettera di San Paolo, vivremmo qualcosa di simile al Paradiso terrestre. “La donna sia sottomessa” è diventato un dogma sociale che di liturgico non ha proprio niente, essendo quel concetto estrapolato da un’epistola in cui si parla anche di condivisioni, di amore reciproco e si catechizza il marito affinché – appunto – provi per la consorte ciò che prova per se stesso e la tratti di conseguenza. Un po’ come quel “non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, fai al tuo prossimo ciò che vorresti fosse fatto a te”.

Nemmeno la Chiesa cristiana ha fatto eccezioni sulla questione, anzi: esiste un problema profondo di discriminazione tra preti e suore. Un divario inaccettabile, così palese da meritarsi un’inchiesta da parte del mensile “Donna chiesa mondo” edito dall'”Osservatore romano”, niente meno. “Nei rapporti delle suore con i loro datori di lavoro c’è stato un offuscamento di quelli che io chiamo i confini. È una questione che dobbiamo affrontare”. Maryanne Loughry, suora della Misericordia, docente al Boston College e consulente del Jesuit Refugee Service, parla di suore che lavorano per preti, vescovi, cardinali, diocesi, scuole e cliniche cattoliche, e lo fanno senza orari né diritti né contratti. E’ lo stesso giornale che ha denunciato spesso abusi sessuali e di prevaricazioni nella Chiesa “comandata dagli uomini”.

Preti, parroci, vescovi e cardinali hanno uno stipendio, le religiose no. Ogni convento, parrocchia e congregazione “trova i suoi metodi di sussistenza e di guadagno”, le donne con i voti non hanno invece alcuna forma ufficiale di finanziamento esterno, sia che siano “attive o contemplative”. In Italia esiste un Istituto per il sostentamento del clero (lo ignoravo, confesso) che paga uno stipendio base di 1000 euro al mese ai sacerdoti. “Le suore invece, quelle che possono farlo, lavorano: insegnanti, educatrici, infermiere, ostetriche, dottoresse, badanti, operaie, cameriere, domestiche, ingegneri, architetti… Altre sono impegnate nelle pastorali delle diocesi o al servizio della Santa Sede e da questa vengono pagate”.

La pandemia ha ulteriormente complicato e aggravato la situazione: monasteri, abbazie e conventi non sono mai stati solo luoghi di preghiera, ma anche centri culturali, sociali, economici e di solidarietà. Piccoli borghi (in qualche caso veri e propri paesi) autosufficienti, sovente con in dote terre e beni portati proprio dalle suore, almeno fino a un centinaio di anni fa.

Suor Maryanne Loughry conclude che per le suore non vi sono orari di lavoro né ferie né weekend liberi: sono disponibili h24, 7 su 7, come la grande distribuzione, ma senza contratti che ne specifichino mansioni, ruoli, stipendi e casomai, appunto, orari. Uno status che, a pensarci bene, dovrebbe essere generico e diffuso in tutta la Chiesa, fatti salvi graduati e gerarchie che invece la contraddistinguono come in un esercito, sia pure l’esercito di Dio. Invece no: la devozione, gratuita e sfruttata, è esclusivamente femminile.

Una denuncia forte e chiara, come lo sono quelle al di fuori delle mura vaticane e che riguardano la vita di tutti i giorni, in cui le regole sono però scritte dagli umani senza davvero alcuna sacralità. E quando c’è da scriversi o dettare regole per conto proprio, l’uomo è sempre un’eccellenza. Anche e soprattutto (ci dice l’Osservatore romano) quando indossa una tonaca, o una mitria.

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