CARO JOHNNY, QUESTO HO IMPARATO IO IN KOSOVO

di LUCA SERAFINI – Caro Roncalli, nella primavera del 1999 ogni telegiornale (all’epoca solo Rai e Mediaset) era intasato di immagini che provenivano dal Kosovo, coinvolto in una delle più inique tra le tante guerre dei Balcani per il semplice fatto che la sua popolazione era pacifica, contadina e aveva i numeri della Valle d’Aosta. Pensa che fine avrebbe fatto, la Valle d’Aosta, sotto i colpi serbi e le scorribande dei paramilitari di Arkan, le tigri…

Quindi, mentre gli uomini venivano massacrati inermi o quasi, le donne, i vecchi e i bambini sfilavano mesti e terrorizzati, a piedi o sui trattori, in cerca di rifugio in Albania, che a quei tempi era ridotta come dopo una guerra di 60 anni: gli albanesi stavano peggio dei kosovari. E le immagini di quei telegiornali mi martellavano la testa, il cuore, tutto.

Per prima cosa, cercai il Kosovo sulle cartine geografiche: mai sentito nominare. Scoprii che in linea d’aria sta a un salto dalla Puglia. Poi andai a Bergamo al Cesvi (Cooperazione e Sviluppo), un’organizzazione per cui collaboravo semplicemente pubblicizzando in radio le iniziative umanitarie in tutto il mondo: “Vorrei andare volontario in Albania, in un campo profughi kosovari”. Mi risposero che servivano specializzati: ingegneri, idraulici, elettricisti, infermieri, tecnici, operai… Avevano due volontari vicino Valona che si occupavano di 850 profughi. “In due?”, chiesi stupito. “Avranno pur bisogno di qualcuno per lavare i cessi, far giocare i bambini, parlare con gli anziani!”.

Sono partito nel maggio 1999 e sono rimasto in quel campo a Ballsh 40 giorni, per fare esattamente quello che avevo chiesto di fare, compresa la pulizia dei cessi.

Alla vigilia della partenza, don Savino (che sarebbe diventato il protagonista di un mio libro del 2014, “La rivoluzione di Giuseppe”) mi disse esattamente quello che hai scritto: “Bravo, bella iniziativa! Ovviamente prima di andare laggiù, suona al tuo vicino e chiedigli se sta bene. Vai in qualche ospedale e chiedi se per loro è ok che tu parta e chiedigli anche se non hanno bisogno di niente. Prova a sentire un ricovero per disabili e informati se hanno tutto ciò che serve”.

Aveva ragione, ma ho potuto scoprirlo soltanto di ritorno dall’Albania e poi dal Kosovo, dove andai con un altro volontario a sincerarmi che andasse tutto bene, dopo il rapido ritorno a casa dei profughi a seguito della pace siglata in quelle settimane.

Feci un’altra scoperta: avevano dato molto di più loro a me, che non viceversa. Mi hanno insegnato la dignità, nella loro indicibile sofferenza. Molti di loro avevano avuto parenti e amici trucidati dalle tigri e persino da qualche bomba Nato caduta per sbaglio sul loro cammino. Quei profughi mi hanno detto, con i loro sguardi e i loro comportamenti, che avrebbero dovuto rialzarsi e ripartire da soli, “grazie comunque per il tuo aiuto… Luko”. Così mi chiamavano.

Siamo da decenni il primo Paese al mondo per numero di organizzazioni non governative, volontariato, associazioni umanitarie eccetera. Perché queste si sostituiscono alle troppe carenze dello Stato, purtroppo. Ed è vero, sacrosantemente vero, che prima di partire dovremmo dare un’occhiata al condominio. Nel 1999 non c’erano selfie, non mi sentivo un eroe, ma un gigantesco egoista. Le scelte però sono personali, vanno capite e rispettate. Ciò che conta è quel che ti resta dentro. E che hai la possibilità di raccontare, perché sei vivo.

Non andrei mai più all’estero a fare il volontario, mi impegno a casa mia, da allora. Ma mi impegno, perché le rivoluzioni si devono fare, sulle barricate o in silenzio come ho scelto di fare la mia. Che è la stessa rivoluzione di San Giuseppe: quella dell’amore.

3 pensieri su “CARO JOHNNY, QUESTO HO IMPARATO IO IN KOSOVO

  1. Flavio Spreafico dice:

    Luca, un bel ricordo è riaffiorato alla memoria, quanti contatti e momenti prima della tua partenza. Poi fu la mia stessa destinazione, nel luglio del 1999 dopo la pace firmata a Dayton, sempre per CESVI. Grazie!

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