di DON ALBERTO CARRARA – La pandemia è fatta di tante notizie e di tanti significati, più o meno evidenti, che stanno dietro le notizie. È un divertimento, e forse anche un dovere, cercare di scovare qualcosa di questi dietro l’evidenza di quelle.
I possibili “dolorosi dietrofront”
“Ora sta a noi decidere se vogliamo evitare dolorosi dietrofront”. Così Conte qualche giorno fa. Dunque la minaccia del futuro – doloroso – serve a tutelare il presente – incerto – e la sua relativa sicurezza. È un’affermazione da ritenersi esemplare per il tempo critico della pandemia. È infatti esattamente il contrario di quello che si sarebbe detto in tempi diversi da quello che ci tocca vivere oggi. Quando domina l’attesa ottimista ci si invita a uscire dal presente perché un futuro radioso ci aspetta. Nei tempi della pandemia ci si chiede di restare al presente perché un futuro opaco ci minaccia.
I mezzi di trasporti pubblici vuoti
Con l’attesa, desiderata ripartenza, i treni erano semivuoti, boom, invece, di automobili. La pandemia si rivela una specie di cartina al tornasole delle nostre abitudini. I mezzi di trasporto pubblici, dunque, sono in crisi, tornano i mezzi di trasporto privati. Tutta l’informazione ha enfatizzato il ricupero delle relazioni durante la chiusura dettata dalla pandemia. Ma l’allentamento del lockdown dice che le relazioni recuperate sono quelle corte, familiari e individuali, o quelle appena al di là di quelle individuali: di vicinato o di quartiere. Le relazioni lunghe, pubbliche e sociali, restano difficili e, con esse, la politica che ne è la garante istituzionalmente costituita. Quindi la fine della reclusione stretta ha dichiarato, con i numeri dei trasporti effettivamente utilizzati, in che direzione stiamo andando. Il grande problema, nei tempi che ci aspettano, non sarà come vivere, ma come vivere insieme.
I soldi che si contano e le sofferenze che si immaginano
“Lockdown, conto salato. A Bergamo 3.6 miliardi”. Nel senso che Bergamo perde 3,6 miliardi per il lockdown. “Quintuplicate le richieste di aiuto”. “Cantieri…: meno 30% produttività”. Poi il consueto elenco di cifre: contagiati, decessi, terapia intensiva, ricoverati. La pandemia è anche esibizione continua di cifre. Le cifre drammatizzano la grande crisi dandole la fisionomia di qualcosa di preciso, che si può ridurre in numeri, che quindi è molto grave, proprio perché documentato. Quello che non può essere documentato sono le conseguenze delle cifre, le sofferenze soprattutto. Quelle non sono soggette a nessun tipo di documentazione. Si possono solo immaginare. Proprio perché si possono solo immaginare, alcune delle immagini della crisi sono diventate icone: i camion militari che portano le salme a essere cremate da Bergamo verso altre città, il prete che, da solo, benedice una salma, l’infermiera che si accascia sulla tastiera del computer, occhi in lacrime dietro una mascherina… Queste immagini sono diventate iconiche perché suggeriscono, lasciano immaginare, anzi: obbligano a immaginare. In un certo senso, la vera pandemia non si può documentare. Come tutti i grandi sentimenti umani, anche il dolore è solo immaginabile. E quando è molto forte ci si deve limitare a dire che è “inimmaginabile”.
Inimmaginabile. Se non tocca da vicino possiamo avvicinarci empaticamente solo per pochi secondi, sentire l’eco e già sprofondare, ma è solo l’amore che lo fa sentire nel petto come uno squarcio improvviso, un grido acuto sull’assenza. Un grido che non si spegne. Tra le tante frasi di congiunti che hanno perso i propri cari in questo periodo in particolare una, semplice e appena sussurrata, mi ha colpita più di tutte le altre “E ti rendi conto che non la vedrai più”, mentre il capo di una figlia, appena inclinato, accennava a voltarsi indietro, come se lo sguardo cercasse ancora quel volto, quella figura così necessaria.
Ma con profondo rispetto penso che esista un’altra morte angosciante e globale che stiamo temendo solo ora. Quella del futuro, delle nostre sicurezze; c’è del terrore incombente su questo, che crea uno smarrimento umano reale e profondo. In chi vede sgretolarsi la propria capacità economica, perché è vitale, perché prescinde da qualsiasi altra condizione di qualità. E ancora, sentire che la libertà sociale non esiste più e non sappiamo bene se e quando la riavremo. Quella che ci permette di pensare ad un avvenire vicino agli altri. Proprio a noi che siamo da sempre legati alla casa allargata delle nostre amicizie, dei nostri rendez-vous, delle nostre gite con gli amici, dei nostri piaceri culturali fatti di teatro, di concerti, di congressi, di fiere.
E per chi come me ha ancora figli piccoli, la grande nuvola sul loro benessere, fisico e psichico. Sulle loro possibilità di progettare, prevedere, costruire. Una voragine al momento incolmabile. Riusciremo a riempire questo vuoto? Riusciranno a dirci “Ora possiamo stare tranquilli”? Io credo di no; arriverà il vaccino si, ma il marchio di questo evento segnerà la nostra generazione e quella dei giovani. Perché visto e toccato una volta, lo stesso male te lo immagini per sempre. E per sempre potrà tornare. La fortuna sta nella nostra natura, il nostro istinto a rendere volatile il mostro, ce la farà anche questa volta, ma non placherà la paura purtroppo. I nostri nonni che hanno visto la guerra hanno continuato a raccontarcela fino alla fine, e le loro parole si strozzavano ancora in gola dopo 70 anni. Speriamo di avere la loro stessa forza.