di ARIO GERVASUTTI – Il pezzo di Cristiano Gatti pubblicato su @ltroPensiero.net (“All’asilo dei governatori”) è comprensibilissimo. In tutti i sensi: per come è scritto – ma questa non è una novità – e perché si capisce facilmente come di fronte allo spettacolino messo in piedi da molte Regioni emerga prorompente la tentazione di dire: “Abbiamo già abbastanza incapaci al governo centrale, eliminiamo le competenze regionali e così riduciamo la moltiplicazione del danno”. Ma, caro Cristiano, siamo proprio certi che la cura sia quella giusta?
Certo, abbiamo davanti agli occhi l’esempio della Lombardia, o del Piemonte, o della Campania: governi regionali completamente travolti nella loro pianificazione sanitaria, nella gestione dell’emergenza, nell’assunzione delle proprie responsabilità. In altre parole: inadeguati.
Ma l’alternativa qual è? Fare gestire tutto a Speranza e ad Arcuri? Lasciare che siano i quattro amici al bar dei ministeri romani a stabilire chi e come deve guidare la sanità della Valle d’Aosta e della Sicilia, di Roma e della provincia di Matera? Replicando quindi i meravigliosi risultati di dieci anni di gestione centralizzata della sanità calabrese? Ma se non riescono nemmeno a nominare un commissario, è pensabile che riescano a stabilire se nella piana di Gioia Tauro servono due o cinque ospedali? E a farli funzionare? Davvero vogliamo buttare a mare quel minimo di autonomia (ovvero, di assunzione di responsabilità) che almeno in campo sanitario siamo riusciti a costruire in questo disastrato Paese?
Accolgo l’obiezione: “La fai facile tu, che parli al calduccio da una regione, il Veneto, dove in campo sanitario tutto (o quasi) funziona liscio come l’olio”. Può darsi che io la faccia facile: ma questa è proprio la riprova che le cose possono funzionare, se gestite come si deve. A patto di non credere che ciò sia dovuto alla mano magica di un singolo taumaturgo. Lo Zaia di turno, per dire, potrebbe ben poco senza un contesto in cui non esistono pochi eroi, ma al contrario sono i cialtroni ad essere contati sulle dita di una mano. Dai dirigenti ai portantini, dai chirurghi agli infermieri, dai ricercatori ai tecnici di laboratorio, tutti remano nella stessa direzione. Cosa che non si può affermare per altre realtà.
E lo dico con dolore e con l’affetto che provo per una terra meravigliosa come la Calabria, per esempio, dove ho una casa che frequento da quarant’anni. Una breve esperienza personale può servire a comprendere perché la sanità laggiù sia così disastrata. Qualche anno fa mia moglie si frattura una tibia, e deve fare una radiografia di controllo proprio mentre siamo in vacanza. L’appuntamento all’ospedale di Corigliano-Rossano è alle 8.30 di una calda giornata estiva. Sorvolo sull’esame ripetuto due volte perché “il macchinario è vecchio”, come ci spiega un affranto e bravo medico che si fa in quattro per ridurre il disagio. Mentre mia moglie si sottopone ai raggi X, io vado alla ricerca del modo di pagare il ticket. Chiedo informazioni a un gruppo di portantini stravaccati su alcune barelle nell’ingresso deserto, intenti a fumarsi una sigaretta. “Provi là in fondo”, mi rispondono dopo un breve consulto. Raggiungo una casetta su due piani, sulla destra del piazzale deserto e silenzioso. Entro, e non c’è nessuno nella stanza, chiusa su un lato da un bancone con vetri divisori dietro il quale si vedono tre postazioni vuote, ciascuna con lo schermo di un computer. “C’è nessuno?”. Da qualche parte, sul retro, sbuca un impiegato. “Desidera?”. “Dovrei pagare il ticket per una radiografia che ha fatto mia moglie”. “Il ticket?”. “Si, il ticket”. Fa una faccia perplessa, per un momento credo di aver sbagliato ufficio. “Aspetti un attimo, devo accendere il computer”. Alle 9 deve ancora accenderlo: deve essere sopraffatto dal lavoro, penso, e con la mente vado alle immagini di un ufficio analogo in qualche ospedale veneto. Durante i minuti di attesa, capisco che non si capacita della mia presenza lì: “Ma voi siete disoccupato?”, mi domanda. “No”. “Allora è disoccupata vostra moglie?”. “Veramente, no”. “Mah…”, e scuote la testa. Non comprendo il motivo di tanta perplessità, fino a quando finisce di stampare tutto il malloppo di carte, me lo consegna e fa: “Sono 21 euro e 30. Facciamo 21…”. “Facciamo 21”? Come dal fruttivendolo? E allora capisco tutto.
Capisco che in quell’ufficio i computer sono spenti perché non ci va mai nessuno: perché nessuno paga il ticket. Capisco perché da anni la Sanità calabrese non ha un bilancio. Capisco perché la macchina per le radiografie funziona ancora a carbone. Capisco perché i barellieri fumano sdraiati sulle portantine nel piazzale deserto. Capisco perché il radiologo era imbarazzato. E soprattutto capisco perché migliaia di calabresi fanno migliaia di chilometri anche per curarsi un foruncolo, pur di evitare quegli ospedali. Capisco perché i migliori medici, infermieri, impiegati calabresi – e sono tanti – vanno a lavorare altrove, se possono. E capisco anche che non può bastare un Commissario, da solo, a cambiare una simile situazione. Perché dovrebbe cambiare la “testa” a centinaia di dirigenti, migliaia di medici, decine di migliaia di infermieri e impiegati e portantini. E tutto questo, con l’autonomia e il centralismo, con la guida regionale o la guida nazionale, c’entra ben poco.
Penso che se legge attentamente la sua esperienza calabrese comprende perchè ha ragione proprio Cristiano Gatti.
Ricordo quando quella discussione in parlarmento passò, tantissimi anni fa, dove il partito comunista era contrario, proprio perchè le regioni più povere non avrebbero avuto i mezzi economici per sostenere la sanità, come lei mi dimostra nel suo esempio.
Se nessuno paga il ticket è perchè nessuno lavora, se la regione non investe nella sanità è perchè i soldi non girano come in altre parti della nazione
Gentile lettrice, la ringrazio per l’attenzione e il contributo. Purtroppo non è così. La spesa sanitaria pro capite è di 1.745 euro in Calabria e 1.815 in Veneto. 80 euro l’anno non giustificano certo questa differenza. E sottolineo “purtroppo”.
A.G
Mi ha piacevolmente sorpreso ricevere una risposta e la ringrazio.
A mio avviso il procuratore Gratteri ha centrato il problema sulla Calabria.
Per la precisione che il covid ha scoperchiato e reso visibile la fallimentare gestione della sanità da parte della maggioranza delle regioni e di questo regionalismo.
A questo punto bisogna far funzionare davvero il Servizio Sanitario Nazionale.
Un caro saluto