Destra e sinistra, conservatori e progressisti, Trump e Harris, Meloni e Schlein. L’eterno derby, insomma. Quello tra due punti di vista contrastanti, se non opposti, di vedere il mondo, saggiare i problemi, proporre soluzioni. Un derby anche stancante, ovviamente divisivo, spesso stucchevole e non di rado velenoso. E sempre, o quasi sempre, settario e intollerante. Ma necessario, perché se guardiamo ai Paesi in cui il derby infinito non si gioca, ed è anzi vietato per legge, allora rivalutiamo all’istante Porta a Porta, Quarto Grado e Piazza Pulita.
Il derby, insomma, può stancare, scendere di livello, assumere contorni da match di lotta nel fango, ma tutto sommato testimonia che l’encefalogramma della democrazia non ha ancora raggiunto la linea piatta e, anzi, continua a segnalare picchi, fibrillazioni, scuotimenti. Almeno fino a quando non apre il buffet.
Pensavamo si trattasse di una consuetudine, anzi di una tradizione, tutta italiana: quella che vede avversari, amici e nemici, querelati e querelanti avventarsi compatti sul rinfresco, finalmente solidali nell’azione e negli intenti, ovvero uniti, come in un affamato fronte di solidarietà nazionale, dal desiderio di spazzar via tutto, ma tutto davvero, fino all’ultima scaglia di parmigiano. Ed è lì, proprio lì, che pensavamo si manifestasse unica e purissima la fondamentale inclinazione italiana al compromesso, non a caso sintetizzata da un’espressione enogastronomica: “tarallucci e vino”.
All’estero, si credeva, non fanno così. Le “vere” democrazie, in particolare quelle di stampo anglosassone, non gozzovigliano a ranghi misti, non confondono gli stuzzichini, non inciuciano tra olive verdi, nere e ascolane. Ognuno per sé, nel rispetto dell’avversario, ma anche nel rigoroso riconoscimento delle diverse appartenenze.
Ebbene: si trattava di un’illusione o per dirla in termini più attuali, di “fake news”. All’estero inciuciano eccome, specie a tavola: anzi, soprattutto a tavola. Solo che non lo ammettono e, anzi, per farlo costruiscono cerimonie farlocche, cene dal contesto elegante, addirittura lussuoso, alle quali affibbiano denominazioni altisonanti e perfino un poco misteriose. Come la cena “Alfalfa” che si tiene l’ultimo sabato di gennaio al Capital Hilton di Washington. Non un buffet per politicanti arraffoni, per carità, non un teatrino del solito “magna magna” per mettere gomito a gomito parlamentari dell’intero arco costituzionale e magari qualche imprenditore con pochi scrupoli. Niente di tutto questo: una prestigiosa cena “bipartisan”, invece, un appuntamento esclusivo che rappresenta il clou della vita sociale nella capitale americana. Sta di fatto, però, che a guardar bene tra Capitol Hilton e Giggi Er Provola non c’è differenza alcuna. Semmai è la versione italiana a essere più nobile, perché esplicita, fanciullesca, in ultima analisi quasi sincera.
Al “eat eat” (magna magna) americano quest’anno c’erano due ministri della nuova amministrazione Trump (Linda McMahon e Doug Burgum), un assortimento di giudici della Corte suprema di diverso orientamento, ambasciatori vari (tra cui il nostro), Jeff Bezos di Amazon e Tim Cook di Apple. E c’era anche Elon Musk, qualsiasi cosa egli ormai sia, nella lista degli invitati iscritto come “E. Smith”, così che lo si riconoscesse solo dopo il saluto romano.
Le cronache raccontano che il magna magna – pardon, la cena “bipartisan” – si è svolta allegramente, tra battute divertenti, scherzi e risate, in un esclusivissimo e simpatico mix di democratici e repubblicani, governatori progressisti e garantisti e altri più inclini all’antico sistema della corda e del sapone. I testimoni dicono anche che si è fatta notare una discreta pattuglia di ospiti italiani, tra cui Carlo Cimbri, presidente di Unipol, e Franco Nuschese, proprietario del Caffè Milano di Washington. Più che ospiti, questi erano probabilmente lì come mentori, guru, insegnanti. Hanno vigilato affinché gli impacciati americani s’abbuffassero a dovere, infilassero in tasca, come è costume, salsicce e hors d’oeuvres e che compatti partecipassero al premio “Silvio Berlusconi” per la barzelletta più inopportuna. Un controllo di maniera, si capisce, una supervisione soave e benevola. Dopo pochi minuti, infatti, i nostri si sono scambiati un’occhiata d’intesa: “Questi imparano presto”, hanno convenuto, “fanno quasi paura”.