Freud parlava ai suoi tempi di disagio della civiltà ma credo che, ancora oggi, nonostante l’agio della connessione, disagio resti una parola estremamente attuale.
A pensarci bene infatti, non c’è niente dell’istinto naturale che orienti i nostri legami i quali sono, piuttosto, simili ad un quotidiano lavoro di fatica e costruzione, resi solo apparentemente più semplici dalla tecnologia, capace di facilitare sì gli incontri ma anche le separazioni.
Incontri e separazioni che oggi, peraltro, avvengono molto spesso in rete.
Nel tempo della connessione perpetua accade allora che assistiamo ad una amplificazione paradossale della distanza fra le persone, le quali si incontrano sempre meno.
Lo sguardo dell’altro viene così rimpiazzato da un like, diventato il sostegno narcisistico ad un’esistenza che si svolge sulla scena dei social network dove, un po’ tutti, ci siamo trasformati in personaggi: quasi nessuna distanza separa più i comuni mortali dai così detti famosi.
Ciascuno ha la sua copertina, coi suoi amori, i suoi figli, i suoi successi, i suoi dolori. La rete ci consente un’esposizione democratica e continua.
Sui social ci si incontra dunque, ci si ritrova dopo anni e ci si lascia persino, a volte con comunicati rivolti non si capisce bene a chi. Ai propri follower, al proprio pubblico.
La relazione sentimentale è documentata da una serie innumerevole di fotografie, più spesso storie, pubblicate per narrare, come in un brevissimo cortometraggio, frammenti di una vita, che un tempo chiamavamo privata.
Cosa resta oggi di quel privato? Bisognerebbe forse riappropriarsi di una forma di pudore dimenticato?
Entriamo nelle case, nei bagni, nelle docce, nel letto, nelle vacanze, nelle cucine degli amici come anche di perfetti sconosciuti.
Mi domando cosa resista della dimensione del segreto, nel nostro legame con l’altro. Cosa, di quella vita e di quel corpo amato, ad esempio, è riservato a noi soltanto? C’è ancora qualcosa di non pubblicabile?
I legami sembrano essere consumati per lo più in uno spazio virtuale, al punto che sembriamo aver smarrito il piacere dell’appuntamento. Non sappiamo più incontrarci?
La maggior parte del tempo che passiamo con qualcuno lo impieghiamo facendoci selfie che pubblicheremo perché altri li vedano, fotografando le portate invece di affondarci le posate, immortalando il tramonto al posto di fissarvi lo sguardo, rispondendo a messaggi di lavoro, connessi con qualcun altro.
Le chat hanno preso il posto della parola e della presenza, la sola in grado di rendere protagonisti i corpi, gli sguardi, gli odori, l’imbarazzo, il battere del cuore, la voce che si spezza.
Bisognerebbe, forse, imparare ad incontrarsi di nuovo, a tornare in quel disagio, cui il rapporto ci obbliga, senza nasconderci, al riparo, dietro uno schermo. Tornare al disagio imbarazzato dell’inizio e a quello doloroso della fine.
Tornare a lasciarci di persona, con gentilezza, senza trasformare in odio ogni amore, senza la brutalità, il più delle volte non necessaria, di quell’orrendo e mediatico suono che un tempo indicava, sulle reti Rai, la fine delle trasmissioni, sostituito dall’angosciante bavaglio contemporaneo dell’essere bloccati.
Sì, perché nella vita reale, per ogni incontro così come per ogni addio, un po’ come accade per la didattica, è raccomandata la presenza.