I racconti tremendi del Turetta al processo. La ragazzina di 13 anni che vola giù dal palazzo di casa a Piacenza, magari spinta dal fidanzatino 15enne. La 19enne uccisa dal coetaneo svalvolato a Costa Volpino. Eccetera, eccetera. Siamo investiti dagli orrori giovani, giovanissimi, e fatichiamo a capire perchè. A trovare un senso, là dove un senso proprio non c’è.
Fanno quasi tenerezza le legioni di psichiatri e criminologi reclutati dal tuttologismo pruriginoso delle tv, che ci spiegano ogni volta cosa è mancato, cosa manca, cosa è saltato in questo mondo bambino.
Nel complesso, domina una constatazione incontestabile: questi ragazzi non hanno più presente il valore della vita. E’ il filo rosso che li lega, è lo spartito comune che suonano senza chiedersi un perchè. Sulla loro bilancia esistenziale, la vita pesa zero. A noi di un mondo precedente i preti hanno insegnato che è sacra e inviolabile, persino esagerando nei modi, drastici e bacchettoni, con tutto il contorno del peccato e del senso di colpa. Ma indubbiamente il valore della vita l’abbiamo metabolizzato, interiorizzato, fatto nostro.
Questi nostri discendenti? Hanno ben chiara forse cosa sia la bella vita, ma quanto sia preziosa e profonda no, non l’hanno chiara. Da piccoli crescono alla scuola del videogioco, dove annientare vite schiacciando un bottone è un merito, tant’è vero che più elimini vite più vai avanti e più ti premiano. Così che poi cento morti al videogioco e cento morti veri in Ucraina, o nella striscia di Gaza, o anche solo in un terremoto, non fanno differenza. Sono solo punteggi. Domanda: quale cultura della vita, quale rispetto della vita può avere un ragazzino cresciuto per anni facendo confidenza con l’idea più insulsa della morte? La morte? Cosa vuoi che sia la morte, forse la capisci un po’ quando se ne va il nonno, ma a quel punto diventa un trauma insormontabile, perchè questa cavolo di morte vera è ben diversa dalla morte che fa classifica dentro lo schermo.
E poi, crescendo. Dopo il videogioco, arriva la cultura dei trapper. Questi altri giovani in assetto da guerra, guerra contro le regole, la società, gli adulti. Senza saperlo, in guerra con la vita. Questi profeti seminano dal palco e dalle loro canzoni il gusto dell’odio, della violenza, delle polveri e dello sballo. Quello che nel mondo precedente era venduto come colpa, oggi è venduto come valore. Altrimenti sei un perdente e un fallito. E’ la cultura compiaciuta del nulla, che non tiene minimamente in conto la vita umana. La vita è solo lotta, duello, rabbia. Contro qualcuno o contro qualcosa. Che comunque non è contro l’ingiustizia o la dittatura, come stava dentro il pugno di una volta in onore di Che Guevara. No, questa è tutta un’altra rabbia. E’ il conformismo della trasgressione, la trasgressione modaiola, là dove ormai la vera trasgressione è andare al cinema o leggersi un libro in santa pace. Eccetera eccetera.
Basta ascoltare i profeti trapper più cliccati, basta leggere i loro testi. Inutile cercare qualcosa di romantico (già usando questo termine li faccio piegare in due dal ridere). Ma anche volendo abbandonare l’obsoleto linguaggio di una volta, non c’è la minima traccia di quella dimensione alta e intramontabile che possiamo definire poesia. Poesia che è declinazione di un vero umanesimo, questa fantastica visione della vita che mette al centro l’uomo, creatura inestimabile da rispettare, proteggere, valorizzare.
Ma quale poesia, quale umanesimo. Adesso si accoltella per sfida, si va all’ottavo piano senza rete per sbancare TikTok, ci si affronta nel piazzale della stazione e vediamo l’ultimo che resta in piedi. Il trapper cattivo che accoltella il collega per regolare vecchi conti è un idolo, così è successo davvero.
Naturalmente non sto facendo un discorso di critica musicale, il rap è un genere come altri e può persino piacere. Qui si sta parlando della semina che in questi anni sta facendo nell’universo dell’età migliore, segnando di vuoto e di amoralità la vita degli uomini di domani. Ma guardiamoli anche solo in una foto, questi nuovi miti: hanno la faccia costantemente in modalità prostatite, non hanno più un centimetro libero dai tatuaggi più truci, mai che si concedano un sorriso, men che meno una battuta di spirito, di sana autoironia nemmeno a parlarne. Loro e i loro piccoli replicanti, gli adoranti fans, compaiono in tutti i selfie con lo sguardo cattivo o tuttalpiù perso nell’altro mondo di chissà quali fumi, tutti monotonamente, immancabilmente, noiosamente con le tre dita a corna, postura che ormai – se si può dire – ha definitivamente rotto l’anima.
Questa è la nuova etica di un certo mondo giovanile. L’etica e anche l’estetica, tanto che poi si fa persino fatica a capire le differenze tra uno e l’altro, tutti lo stesso cappellino all’indietro, tutti gli stessi tatuaggi full-body, tutti la stessa voce da Verdone ebete, tutti lo stesso sguardo che vorrebbe sembrare tosto e carico di minacce, risultando chissà perchè ridicolmente patetico. La sensazione, la peggiore di tutte, è che ormai abbiano più paura della vita che della morte.
Da questo mondo noir, da questa sottocultura borchiata, parte quotidianamente il richiamo alla parte cupa di noi, alla parte incazzosa, perchè è giusto avercela con tutti, pure con le donne, di cui si parla come fossero elementi del proprio arredamento egocentrico, conquiste a disposizione, oggetti da maneggiare come la lama e la canna.
Poi, ogni tanto, parte la coltellata vera. E una ragazzina, quasi sempre una ragazzina, se ne va da questa vita nel modo più crudele e più stupido. Come in un videogioco. E quando il colpevole alla fine confessa, il più delle volte non sa dire perchè: ho ucciso senza rendermene conto, ho ucciso per richiamare l’attenzione, ho ucciso perchè lei non poteva lasciarmi. Ma la sensazione è sempre la stessa: che al di là di ricostruzioni e ammissioni fattuali, mai trapeli la consapevolezza della gravità spaventosa di quel gesto. Confessano l’omicidio, si accollano la fine di una vita, però come fosse un divieto di sosta o una guida in stato di ebbrezza. E noi a chiederci sgomenti come fa a non rendersi conto di quello che ha fatto. Domanda ormai vecchia e persino un po’ cretina: come fa a rendersi conto di quanto vale una vita il ragazzino cresciuto a videogiochi sanguinari e a trapper beccamorti?