ANORESSIA E BULIMIA, MALATTIE DELL’AMORE

di MICAELA UCCHIELLI (psicologa e psicoterapeuta) – In un suo articolo dal titolo “Se il razzismo arriva alla ciccia”, Luca Serafini scrive che “dove ancora si muore di fame, il metabolismo non ha cittadinanza”.

Nemmeno anoressia e bulimia vi trovano alloggio, vorrei aggiungere io, con la doverosa precisazione che i disturbi del comportamento alimentare non sono disordini dell’appetito.

Essi albergano nelle società del capitalismo, dove il culto dell’immagine e dell’oggetto si impongono dominanti; pensare tuttavia che una persona smetta di mangiare o mangi e vomiti molte volte al giorno perché il discorso sociale impone il mito della magrezza, in quanto bellezza, o del consumo spasmodico dell’oggetto sarebbe, a dir poco, riduttivo.

All’esordio di ogni anoressia e bulimia troviamo, piuttosto, una ferita non qualunque, una ferita emotiva: ascoltando infatti i racconti delle pazienti (uso il femminile perché anoressia-bulimia sono patologie a prevalenza femminile) scopriamo che i primi incontri con l’altro sesso si sono rivelati fallimentari, marchiati da tradimenti, abbandoni, umiliazioni, maltrattamenti, talvolta abusi.

L’anoressia diviene allora un tentativo disperato di difendersi da relazioni che feriscono, utilizzando il corpo come uno scudo nei confronti della possibilità, sempre rischiosa, dell’incontro amoroso.

Mangiare sempre meno, poco, pochissimo, quasi niente, fino a diventare pelle e ossa è da un lato un tentativo di tenere a distanza lo sguardo desiderante dell’altro, ma al tempo stesso il corpo magro, emaciato, avvizzito e scheletrico si impone, a quello sguardo, come un’evidenza

La domanda anoressica è una domanda paradossale, in cui la progressiva sparizione non è che un modo per essere finalmente vista come un soggetto e non come un tubo digerente, da riempire.

“Adesso però mangia”, quante volte abbiamo sentito pronunciare queste parole, quante volte l’abbiamo dette ai nostri figli? Non si chiude forse la bocca a qualcuno, quando gliela si riempie con del cibo?

E’ così che il rifiuto di alimentarsi rappresenta il rifiuto dell’altro. Avete presente quando i bambini sputano la pappa? Ecco, è esattamente di questo che si tratta, della più primitiva e radicale forma del no. Non è il cibo soltanto che un bambino domanda, ma un nutrimento in cui passi insieme al latte, l’amore.

E allora possiamo dire che non è il cibo che un’anoressica rifiuta in fondo, ma il luogo da cui proviene quel nutrimento, spesso privo di desiderio amorevole.

Sono proprio i bambini nutriti con più sollecitudine che ad un certo punto decidono di smettere di nutrirsi, invertendo i posti, mettendo in scacco il genitore, alla ricerca di quella potenza e indipendenza cui ogni anoressica sempre punta, nell’adorazione solitaria della propria immagine.

Se il digiuno anoressico è una forma di esercizio del controllo, una luna di miele col sintomo, l’abbuffata bulimica rappresenta l’altra faccia, una forma di schiavitù e dipendenza dove il cibo non è che un oggetto che illude di colmare un vuoto insaziabile e senza soddisfazione alcuna. Ingozzarsi, fino a farsi quasi scoppiare lo stomaco, è tutto fuor che un piacere. Il vomito punta allora ad annullare il cedimento. Ma il vomito angoscia e conduce spesso a domandare una cura.

Cura in cui, dopo poco, il discorso si sposta dal cibo alle relazioni, mostrando come, che si tratti di mangiare niente o di mangiare tutto, non è mai del cibo che si tratta, ma sempre di un dubbio, originario, sull’amore.

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