AL GRAN TEATRO DEL CALCIO TATUATO

di DON ALBERTO CARRARA – Sono tra il meravigliato e il sorpreso io, vecchietto, di fronte alla moda ormai inarrestabile dei tatuaggi. In Italia sono 7 milioni le persone che portano tatuaggi, quasi il 13 per cento, 60 milioni in Europa. Tra l’altro, la sensazione è che siano ancora di più perché chi è tatuato “si vede” di più e alcune categorie di persone molto esposte sono percentualmente più ricche di tatuaggi. Vedi, ad esempio, i calciatori (NELLA FOTO: NIGEL DE JONG). Ormai quando si vede una partita in TV si ha la sensazione che per i calciatori la norma siano i tatuaggi, mentre l’assenza di tatuaggi sia l’eccezione.

Così mi sono divertito quando mi sono imbattuto in una nota di colore – o di cultura, se si preferisce – riguardo a un secolo lontano da noi, ma, per alcuni aspetti vicinissimo, il ‘700. Quel secolo è impregnato di teatro e la moda stessa era teatrale. Le donne adottavano vestiti che rappresentavano eventi storici (pouf à la circonstance) oppure sentimenti (pouf au sentiment). I capelli erano molto intrecciati e appesantiti di oggetti vari, anche di ceramica. Ci si dipingeva, uomini e donne, il volto di trucco. Anzi il trucco serviva a denunciare situazioni sentimentali particolari. Si usavano i “nei di bellezza” (mouche, “mosca”). Se il neo era collocato all’angolo dell’occhio significava passione amorosa, se si trovava sul labbro inferiore voleva dire “franchezza”. Il corpo stesso nel suo insieme finiva per essere “un manichino senza anima, che bisognava drappeggiare, imbellettare, adornare con segni e significati” (trovo queste notizie in un singolare libro di un singolare autore: “La società della trasparenza” del filosofo sud coreano Byung-Chul-Han).

Il ricordo delle mode del ‘700 non è un esercizio decadente perché la stessa domanda si potrebbe porre per chi, oggi, si fa dei tatuaggi: perché allora ci si truccava e perché oggi ci si fa tatuare: per nascondere o per rivelare?

Tutta la cultura che oggi respiriamo è votata alla trasparenza: si deve essere sinceri, non si deve nascondere nulla, si deve dire quello che si pensa, la trasparenza è la condizione stessa dell’attività politica, delle attività economiche… Lo stesso mondo internet dominato dai social è segnato dalla possibilità teorica che tutti sappiano tutto di tutti. Se si è moderni si deve essere disposti ad essere così: una casa di cristallo.

Ma, di fronte alla grande trasparenza, sta inevitabile l’esigenza di difendersi. Sono moderno e devo mettermi in piazza, ma sono me stesso e mi sento geloso della mia privacy. Trasparenza e privacy sono certamente due parole che segnano il nostro modo di essere.

I calciatori sono personaggi di un teatro vastissimo e visibilissimo. In quel teatro essi devono esibire ma, insieme, rivendicare la loro insopprimibile privacy. Così i loro tatuaggi dicono e non dicono, mostrano ma non si sa cosa, esibiscono e nascondono.

In questo modo il calcio non è solo una piccola guerra con attaccanti, difensori, cannonieri (il fascino di questi termini guerreschi!) ma anche un piccolo teatro con i suoi attori e le sue maschere. Per questo è così popolare. E quindi si capisce che quando noi dell’Atalanta (confesso le mie origini e le mie debolezze) abbiamo rifilato sei goal al povero Brescia (“abbiamo”, come se tutti avessimo giocato allo stadio!), abbiamo avuto la sensazione che i nostri attori, perfettamente travestiti, abbiano perfettamente interpretato la loro parte. Non solo, ma abbiamo avuto la sensazione, nella guerra contro i nostri vicini di casa, di aver impallinato, come cacciatori più che calciatori, le povere rondinelle bresciane.

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