Il ragazzo aveva appena finito il turno come rider, era incensurato e sognava un giorno di avere una pizzeria tutta sua. Dettagli che abbiamo imparato dopo, quando una storia personale è finita sulle prime pagine con il suo carico di sgomento e di dolore.
Ma, paradossalmente, anche il ragazzo ventenne fermato con l’accusa di omicidio è a modo suo una vittima. Lo dice la storia sua. Il padre fu ucciso nel 2013 all’età di 34 anni, in un agguato di camorra. In precedenza, dieci anni prima, aveva accoltellato la moglie incinta e fu arrestato per tentato omicidio. Anche altri familiari hanno avuto guai con la giustizia. Questo pare che sia il contesto familiare in cui è cresciuto il ragazzo che usciva armato e che non ha avuto paura di sparare solo per una macchia sulle scarpe.
Senza fare della sociologia spicciola, è facile immaginare che l’assassino a sua volta sia vittima di un contesto che gli ha insegnato il potere della violenza, della prepotenza e della sopraffazione. Il potere educativo, anche inconsapevole, della famiglia è sempre decisivo. In casi come questi, la scuola, le altre agenzie sociali hanno il difficile compito di proporre e insegnare un modello di relazioni basate sul rispetto e sul confronto sano. Ma spesso è un impegno impari e si esce sconfitti.
Certo il vero dramma è per Francesco e per i suoi cari, questa famiglia che si trova a piangere la morte immotivata di un ragazzo di 18 anni. Ma non ci devono essere dubbi sul fatto che, in un certo senso, in qualche modo, abbiamo perso tutti. Sul quel marciapiede, in quella folle sparatoria, è morta un po’ anche la società. Almeno come la pensano e la sognano da sempre gli uomini civili.