40 ANNI, LA MEZZA ETA’ DI QUELL’ILLUSIONE TRADITA DELL’82 MUNDIAL

Tutti celebreremo con la malinconia a mille l’11 luglio, in un tripudio di foto dell’urlo Munch di Tardelli, di Pertini con pipa in tribuna, di Zoff che alza la Coppa. Quella è la data scritta nel marmo, giorno della finale e del Mondiale 1982 che regalano all’Italia – paese, prima ancora che nazionale – il suo giorno pieno di ubriaca felicità. Felicità in questo caso non è una parola grossa, perchè davvero quella volta un intero popolo si butta nelle fontane, si attacca ai clacson, gira per una lunga notte senza meta e senza itinerario, seguendo solo il richiamo e l’aroma di un carnevale fuori calendario e sopra le righe.

Quella data diventa in quest’estate di guerra e di siccità, di inflazione e di cavallette, una signora data di mezza età, quarant’anni esatti, matura il giusto per essere guardata con un po’ di tiepida misura e ancora abbastanza fresca per smuovere emozioni ruggenti. In queste settimane di giugno è dolce rigustare passo passo quella che alla fine definiremo cavalcata travolgente, ma che di questi tempi, nell’82, è ancora tutto un dubbio e un tremore. Girone eliminatorio faticoso e affaticato, l’incubo incombente di trovare dietro l’angolo lo scontro diretto con le grandi del pianeta, le solite, proprio quelle che poi fracasseremo a una a una, senza rubare nulla, senza espedienti all’italiana, giocando un magnifico calcio di corsa e di tecnica, senza piagnucolare su niente e senza farla lunga sull’esterno che non crea densità e non aggredisce gli spazi. E senza neppure arrivare ai rigori, perchè i conti li regoliamo sempre prima, mettendo i piedi sul tavolo con tutte le superpotenze che si mettono di mezzo. Toccherà per prima all’Argentina, il 29 giugno. Poi a seguire il Brasile, 5 luglio. Quindi la Polonia l’8. Fino all’esaltazione finale con la Germania, quel memorabile 3-1 senza la minima possibilità per i wurstel di recriminare su nulla.

Così in campo. Così lo sport. Ma quella volta ci viene buona soprattutto per costruire un’estate particolare e irripetibile, una bella estate di italiani a tutta, giovani e vecchi, donne e uomini, collettivamente travolti da insolita passione patriottica e nazionalista. Esplode strada facendo, senza social e senza giocatori tatuati, il fenomeno autenticamente pop della visione in trattoria, in taverna, al bar, pizza-birra e una bella sudata tutti assieme, davanti alla tv di Nando Martellini.

Anche in questo caso carichiamo sopra il successo sportivo tutti i significati possibili, compresi quelli troppo grandi e troppo seri, soprattutto troppo impegnativi, per una semplice vittoria del pallone. Come no, parliamo di riscossa e di rinascimento, di sistema paese che si riscatta, di orgoglio del made in Italy e insomma di tutto quel ciarpame politico e sociale che tiriamo fuori in queste situazioni. L’Italia diventa – così ce la raccontiamo, così ci piace raccontarcela – il Paese più bello e più invidiato del mondo. E’ una colonna sonora che poi immancabilmente faremo partire ogniqualvolta riusciremo a prenderci una medaglia e ad alzare un trofeo, la scorciatoia facile e giocosa per sentirci primi e superiori, purtroppo l’unico modo che da troppo tempo conosciamo, salvo forse il caso eccezionale della lotta al Covid.

Dovremmo sapere bene, eppure nessuno lo dice, che il primato e la statura di un Paese si misurano sulle scuole e sugli ospedali, sui treni e sulle autostrade, sulla burocrazia e sulla giustizia giusta. Un trofeo, anche il più bello, è solo una parentesi di euforia e una beata distrazione. Un trofeo può vincerlo anche il popolo più disastrato del mondo. Dovremmo saperlo, ma mai che riusciamo a tenercelo in mente. Così ogni volta. Persino quando vinciamo in barca a vela e lanciando le pentole del curling. L’Italia fondata sul lavoro è ormai l’Italia stabilmente fondata sull’assurdo, affondata nell’assurdo, e non c’è verso di venirne fuori.

Sbornia senza limiti e senza fine, invece, in quell’estate dell’82. Un’estate che sa di primavera, stracolma di promesse e di aspettative. Illusione collettiva di successo perenne. In tutto e per sempre. Così, per uscire dalle fontane e per abbassare il volume dell’immensa notte stellata, deve arrivare puntualmente il suono stridulo della campanella reale, della nostra vita vera, della nostra storia e della nostra cronaca malate. Basta aspettare il 3 settembre, meno di due mesi dopo il delirio mundial, per tornare a forza nella nostra dimensione di sempre, quella che nessun trofeo e nessuna maglia azzurra sono mai riusciti a emendare davvero, a lungo e stabilmente: in una calda serata di Palermo, la nostra mafia peggiore, lei sì autentico primato storico d’Italia, ammazza in via Carini il più bravo dei nostri soldati, il più fedele e il più idealista, quel generale Dalla Chiesa che quarant’anni dopo manca sempre allo stesso modo, come in quella dannata notte di Sicilia sanguinaria. Allungheremo con un nome la lunga lista dei nostri eroi incompresi, gli eroi del dopo, che mitizziamo anche per sciacquare un po’ sbrigativamente i nostri impronunciabili sensi di colpa. Una lista che esattamente dieci anni dopo allungheremo di nuovo con i Falcone e con i Borsellino, una lista purtroppo sempre aperta, perchè aperte sono sempre le nostre piaghe peggiori.

In questa estate dei quarant’anni precisi non c’è più Pablito, il Paolo Rossi emblema totale di quell’epopea, simbolo dell’Italia senza fisico e senza blasone, solo estro e improvvisazione, capace di ribaltare tutte le previsioni e tutte le certezze dei laboratori e dei centri studi, questa che resta in fondo la nostra fortuna di sempre, capace di salvarci sull’orlo dei burroni, chissà fino a quando, chissà fino a dove.

E’ dolce e romantico in queste settimane perdersi nelle migliori nostalgie. Le nuove generazioni facilmente non capiranno cosa intendiamo dire noi padri e noi nonni. Loro, com’è giusto e com’è sano, coltiveranno negli anni la memoria di altri trofei e di altri momenti italiani, il Mondiale tedesco del 2006 e persino l’Europeo inglese del 2021, guarda caso un altro 11 luglio.

Ecco, la coincidenza dell’11 luglio è forse perfetta dovendo riclassificare le nostre emozioni: la festa e il clamore, l’enfasi e la retorica, tutto sembra uguale. Così ci piace approssimare, egoisticamente e anche un po’ bambinamente, per mettere in piedi ogni volta la stessa baraonda e raccontarci le stesse fregnacce sul rinascimento italiano. Ma tanti di noi sanno che è uguale solo l’11 luglio, data del calendario. C’è storia e storia, in questi 11 luglio. Io mi tengo stretta quella dell’82, nel bene e nel male, fresca come fosse adesso, equivoca e malintesa come fosse adesso, però quanto meno giustificata da un’impresa davvero impensabile, contro tutti i potenti del mondo, ma prima ancora illuminata dal chiarore segreto di una nuova speranza sociale.

Una speranza durata solo due mesi, ma una speranza spontanea e sincera. Da lì in poi puntualmente disillusa, da altre Italie una peggio dell’altra, da altre idee di Paese miseramente tradite, nelle case e nelle piazze.

Ma forse – ammettiamolo – è solo e semplicemente la dolorosa disillusione dell’età che passa, spegnendo ad una ad una le luci delle porte che ci chiudiamo alle nostre spalle, senza possibilità di riaprirle.

Un pensiero su “40 ANNI, LA MEZZA ETA’ DI QUELL’ILLUSIONE TRADITA DELL’82 MUNDIAL

  1. Marco Scotti dice:

    Eh si. Il sapore di un’altra Italia Paese, ma forse perché avevo 16 anni e mille speranze. Oggi ne resta solo una (di speranza): galleggiare in questo mare di melma cercando di mantenere un sorriso….

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