21 MARZO, QUEL CHE RESTA DELLA POESIA

di FABIO GATTI – Non può essere un caso che l’inizio della primavera coincida con la Giornata Mondiale della Poesia: sarà una suggestione, ma dev’esserci un preciso disegno nel far cadere entrambi gli eventi il 21 marzo, soprattutto se si pensa a quanto la primavera abbia ispirato la poesia, e quanto la poesia abbia omaggiato la primavera. Se ragionassimo in termini di stagioni, però, dovremmo probabilmente ammettere che oggi ci troviamo nell’inverno della poesia, o almeno in una fase di letargo (prima o poi, si spera, arriverà il risveglio).

La poesia come genere si rivolge ormai a un pubblico di nicchia: sarà la difficoltà di metri e rime, sarà l’impossibilità di poetare dopo l’invasione inevitabilmente violenta delle avanguardie del Novecento, in ogni caso, oggi, le uniche poesie largamente diffuse sono i testi dei cantautori, che hanno peraltro il merito di recuperare quel legame antichissimo tra parola e musica, lingua e suono, che aveva caratterizzato la poesia delle origini, finendo poi per perdersi.

Ma la poesia, prima che essere un insieme di sillabe e vocali, versi e strofe, regole e accenti, è una disposizione d’animo, un’attitudine, un modo di guardare alla vita e al mondo. I grandi poeti, dal Leopardi al Pascoli, sono concordi nel vedere nella poesia l’atteggiamento tipico del fanciullo, che si lascia stupire e meravigliare, si rapporta al mondo con la fantasia e con l’immaginazione, riduce al minimo quella mediazione razionale e cerebrale che tanto condiziona la mentalità dell’adulto.

Se già l’epoca del Leopardi era a suo dire profondamente impoetica, a maggior ragione lo è la nostra, dominata dalla scienza e dalla tecnica molto più di quanto non lo fosse la sua: scienza e poesia hanno davvero poco da spartire, perché la prima si basa sul “vero”, cioè sul dato di fatto, la seconda sul “falso”, cioè sulle illusioni. È poi curioso che anche filosofia e poesia viaggino su binari separati: solo raramente la filosofia sa farsi poesia, mentre molto spesso la poesia è anche filosofia. Nonostante l’eterno duello, qualche filosofo (Benedetto Croce su tutti), con encomiabile imparzialità, ha riconosciuto il primato proprio alla poesia, la sola in grado di sollecitare e solleticare il lato sentimentale, estetico e suggestivo delle cose, un aspetto inafferrabile e sfuggente senza il quale, però, è impossibile capire fino in fondo l’uomo e la realtà.

Qualcuno ha detto che la poesia non deve dire, ma essere, ed è un’osservazione che coglie nel segno. Il vero fascino della poesia risiede in un inespresso che comunica, in qualcosa di indefinito che non riusciamo a spiegare ma possiamo sentire. “Sentire” è in effetti il verbo giusto del poetare, come già aveva notato Giambattista Vico, il quale collegava la facoltà poetica al senso e alla fantasia, non alla ragione: chi fa e legge poesia sente, nello stesso modo in cui si sente un affetto o un legame, una fede o un’appartenenza, un’atmosfera, tutte cose invece difficili da esprimere. La poesia stessa vive di questa singolare dimensione, tanto che è impossibile spiegare perché una poesia ci piaccia tanto: una poesia riuscita è il frutto di un meccanismo invisibile che, quando s’inceppa, produce grovigli incomprensibili o stucchevoli orpelli.

Ogni poesia, a modo suo, si basa sul potere “psicagogico” della parola, cioè sulla sua “capacità di condurre l’anima”: una parola poetica può evocare un paesaggio meglio di un dipinto, può commuovere e smuovere, può aprire scenari e profilare orizzonti, può scavare nell’interiorità umana. Ci sono poeti che, come Cristoforo Colombo, vogliono “scoprire nuovi mondi o affogare” (Gabriello Chiabrera), e altri a cui invece non devi domandare “la formula che mondi possa aprirti” (Eugenio Montale), ma anche in questo caso è sufficiente “qualche storta sillaba e secca come un ramo” per capire – meglio, sentire – cosa sia la poesia.

Non siamo i primi, in questi tempi, a interrogarci sul presente e sul futuro della poesia: per i corsi e ricorsi della storia, ciclicamente si succedono periodi in cui se ne percepisce il declino, ci si chiede quali ne siano le cause, si prova a rimediare. Ma è inutile affannarsi per la vita della poesia: basta non perdere la poesia della vita.

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