2021, FUGA DAL GRATTACIELO

di TONY DAMASCELLI – Capisco Gary Barnett. Ha costruito una casa grandissima, ci ha speso tre miliardi di dollari tra architetti, geometri, muratori, idraulici, elettricisti e si ritrova con un bel 179 appartamenti con il cartello “vendesi”.

E’ l’ultima di cronaca e costume: va malissimo il mercato dei grattacieli a New York, arabi e affini si sono stancati di vivere tra le nuvole, anche perché l’aria non è più quella di una volta. Eppoi gli ascensori non offrono tutte le garanzie, le pareti delle stanze scricchiolano al vento dell’ovest e dell’est, mentre si versa un Martini con l’oliva il bicchiere oscilla più del giusto e non certo per il tremore del barman. I coinquilini sono un fastidio non previsto, li incontri sul pianerottolo di sotto, portano su, a fatica, la spesa, riportano giù, con uguale sofferenza, il segugio per le deiezioni di rito, non dico il videocitofono e i parenti che improvvisamente si manifestano, insomma il grattacielo non è più quella comodità che si sognava.

Ecco che entra in crisi il modello New York City, bei tempi quelli di King Kong e dell’Empire State Building, oggi farebbe meno paura il gorilla dell’edificio in questione. Meglio puntare su una villetta in periferia, piano terra, al massimo soppalco, meglio investire su dimore di fascino antico con tutti i comfort e a favore di vento, meglio ritornare alle vecchie e care farm, con le porte zanzariere e la staccionata per i cavalli. Il colonial revival sta prendendo moda, c’è voglia di scappare via dal centesimo piano, l’11 settembre è sopra il soffitto, i grattacieli soffocano la vista. Bel risultato, dopo la frenetica corsa del progresso. Dopo la folle gara a chi lo fa più alto.

Aveva ragione Milos Forman: “Quando scendo dal taxi a New York mi rendo conto come fosse più bella sulle cartoline”.

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