150MILA EURO SONO NIENTE, PER IL ROMPICAPO INPS

di ARIO GERVASUTTI – Con un decreto del ministro, nottetempo e sotto Ferragosto come si conviene, è stato assegnato un bonus di quasi 100mila euro al presidente dell’Inps Pasquale Tridico. Così il suo emolumento annuo passa dagli attuali 60mila euro a 150mila. Lordi. Seguono immediati scandalo, sdegno, riprovazione e inevitabile richiesta di dimissioni, rigorosamente nell’ordine.

Ma qual è il vero scandalo? Che il presidente dell’Inps, ovvero quello che ha in mano il destino non solo delle nostre pensioni attuali e future ma anche di buona parte del bilancio dello Stato italiano, guadagni 150mila euro lordi (che al netto fanno circa 6mila euro al mese?). Sì, è uno scandalo: ma al contrario. Perché ne dovrebbe guadagnare molti di più.

Non lui, il Tridico Pasquale in quanto tale: ma il manager responsabile di uno degli enti più delicati e importanti del Paese. Uno che non dovrebbe “valere uno”, secondo la retorica demenziale che ha stravolto la politica e la società italiana negli ultimi anni: in quella posizione ci dovrebbe essere un drago, un mago dei conti, uno capace di far funzionare una mastodontica burocrazia devastata da decenni di parassitismo, di inerzia amministrativa, di ritmi fantozziani e pause caffè. Una macchina che senza alcun controllo elargisce 600 euro a parlamentari che chiedono il sussidio per il Covid, ma non riesce a pagare da sei mesi la cassa integrazione a 30mila persone che hanno perso il lavoro. E uno capace di fare un miracolo – perché questo ci vuole, un miracolo – lo dovremmo pagare 2.500 euro al mese (questo era lo stipendio netto mensile di Tridico prima del “bonus)?

E’ arrivata l’ora di dire “basta”. Non tanto a Tridico – passerà anche lui prima o poi, se Dio vuole – quanto alla retorica demagogica secondo la quale chi ha un importante ruolo pubblico deve essere pagato a calci nel sedere. Dovremmo, noi cittadini, pretendere che in simili ruoli ci sia il meglio del meglio sul mercato, e che venga pagato adeguatamente in base ai risultati. Un bravo manager di un’azienda con 100 dipendenti parte dai 250mila euro in su; perché mai, se invece l’azienda è pubblica ovvero di tutti noi, deve arrangiarsi con un tozzo di pane con il risultato che il posto viene assegnato – se va bene – agli scarti e agli incapaci amici degli amici?

Dice: ma il privato usa soldi suoi e se vuole strapagare un manager, non sono affari nostri. Restiamo nel pubblico, allora. Sempre la retorica demagogica di cui sopra ci ha venduto come un grande successo l’imposizione di un tetto ai compensi nella Tv pubblica, detta rai: 250mila euro. Quindi, nani e ballerine (con tutto il rispetto per le due categorie) possono percepire il quadruplo del presidente dell’Inps. E’ questa la corretta gestione dei soldi pubblici? O è l’inseguimento di un pauperismo d’accatto che – appunto all’insegna dell'”uno vale uno” – nega il merito, azzera la proporzione tra qualità individuale e riconoscimento del risultato, stravolge le regole del mercato sostenendo che chiunque può svolgere qualunque ruolo: basta pagarlo poco. E il passo successivo è stato già disegnato dal massimo cantore e stratega di questa filosofia politica: Beppe Grillo. Il quale ha appena teorizzato che il Parlamento non ha più senso, così come i ruoli elettivi di rappresentanza: meglio sorteggiare l’assegnazione degli incarichi, che durino un anno o due e poi sotto con un’altra lotteria. Dal suo punto di vista, ha ragione: se un Tridico può fare il presidente dell’Inps e un Di Maio il ministro degli Esteri, è evidente che non dovrebbero essere pagati: dovrebbero anzi pagare loro qualcosa ai cittadini per il disturbo. Ma poi nessuno si lamenti se l’Inps salta per aria, le pensioni spariscono e l’Italia va a donne di facili costumi.

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