15 ANNI DOPO ROSARNO, E’ SEMPRE VIVA L’ITALIA DISUMANA CHE SFRUTTA

Se ne sono ricordati in pochi, pochissimi. “Il manifesto”, “Emergency”, “La Rivista Il Mulino” sono tra i pochissimi che hanno ricordato la rivolta di Rosarno di quindici anni fa. Nel gennaio del 2010 vennero sparate fucilate contro due braccianti che tornavano dopo una giornata di lavoro nei campi, nella Piana di Gioia Tauro, e fu la miccia della rivolta, che pose davanti ai riflettori in modo chiaro cosa stava succedendo da quelle parti, e quello che succedeva e succede in tantissimi altri luoghi, al nord come al sud. E non che prima non si sapesse.

Il Paese vide in primo piano le condizioni dei braccianti agricoli e non fu possibile ignorarle. Le tende, le baracche, le paghe da fame, le angherie, i ricatti. Per chi ha buona memoria, allora fu una vertigine di buoni propositi: controlli, denunce, i maipiù di rito che ben conosciamo.

Allora il ministro dell’Interno era Roberto Maroni, pace all’anima sua, che dal manuale del buon leghista estrasse la spiegazione di rito: troppi irregolari. Peccato che gli irregolari facessero comodo a tutti, al nord come al sud, perché di passare ore e ore nei campi in quelle condizioni e con quei quattro soldi sporchi a un italiano non sarebbe mai passato per la mente.

Quindi andavano benissimo i disperati e ancora vanno bene, perché ovunque, e così a Gioia Tauro, le cose sono cambiate poco o niente e dei maipiù di quindici anni fa nessuno ha memoria. Periodicamente la magagna torna a galla, come nel caso di Satnam Singh, l’indiano abbandonato agonizzante senza un braccio, dalle parti di Latina nel giugno scorso, ma come il mal di testa poi passa, senza nemmeno bisogno del paracetamolo.

Siamo il Paese delle contraddizioni, ma lo sono un po’ tutti, a essere onesti: grandi talenti, grandi innovazioni, almeno nelle intenzioni, grandi menti, grandi geni, governi dei grandi proclami, e poi il sommerso. I disgraziati, i dimenticati, i brutti e gli sporchi. E i braccianti irregolari, certo, nascosti in un mondo sommerso che è però curiosamente davanti a tutti e che a tutti più o meno consapevolmente fa comodo.

Dalle parti di Gioia Tauro sono ancora duemila gli sfruttati e mi spiace non poter essere preciso fino all’unità, perché sono vite umane che lavorano, sono spremute e a nessuno importa quel che sarà di loro.

A nessuno viene in mente di porre rimedio, di coinvolgerle nella loro emancipazione, magari permettendo loro di continuare a fare quello che stanno facendo, ma mostrando loro che siamo un Paese civile e lo possono fare in piena dignità, con una paga rispettosa e una casa decente a cui far ritorno la sera.

È che non lo siamo, un Paese civile, nonostante i proclami e i maipiù. Vale per i braccianti come per qualsiasi altra infamia, umiliazione o disgrazia.

È mal comune si dirà, ma non è consolazione. Accanto alle fantasie e alle solleticazioni degli starlink, delle stelle del signor Musk, val al pena ogni tanto ricordare le stalle nelle quali costringiamo a vivere quelli che ci portano i pomodori in tavola, e tutti quelli che per un motivo o per l’altro non ce la fanno.

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