PORTE CHIUSE, PUNTO

di LUCA SERAFINI – Viviamo un momento di grande paura, di grande incertezza e preoccupazione, con problemi enormi non solo e non tanto di salute oggi, ma per il futuro domani. Inizio parlando di coronavirus perché è questo maledetto vocabolo che sta condizionando la vita del pianeta e del nostro Paese, a tutti i livelli. La mia veloce riflessione sul problema è che penso non sia l’Italia il Paese più contagiato, ma sia stato il primo ad accorgersi dei contagi. Perché sono certo che abbiamo i migliori medici e scienziati del mondo, quelli che questo mestiere lo fanno per davvero. Abbiamo però anche, da anni, la peggior classe dirigente del pianeta in assoluto. E in particolare naturalmente quella politica, sciatta, volgare, mariuola, inetta, ignorante, la quale anziché condurci orgogliosamente ad essere la nazione rompighiaccio capace per prima di individuare, curare e isolare il virus perché sarà certamente così, ci ha ridotti a un paese non in guerra, perché l’Italia in guerra e in ginocchio è già da anni, ma in un dopoguerra: dopo averla persa.
Sono molto angosciato per l’economia, il lavoro, la salute della terra in cui viviamo, faccio fatica a parlare di calcio, ma questo è da sempre il mio mondo, la mia passione, il mio lavoro. Purtroppo l’unica continuità, l’unica certezza, l’unico riferimento che anche il mondo del pallone in Italia ci propina ogni giorno è l’assoluta incapacità di gestire qualsiasi situazione, dalla routine all’emergenza, così da farci confondere senza poter capire, senza saper distinguere, il necessario dal superfluo.

Ormai da due settimane Lega e Federcalcio, in una full-immersion da film di due/tre o anche quattro o cinque giorni e due/tre o anche quattro o cinque notti senza sosta (perché parliamo della quinta azienda italiana), avrebbero dovuto approntare un sistema serio, credibile e percorribile per affrontare questa situazione e la soluzione non poteva che essere, indiscutibilmente, di giocare a porte chiuse. I nostri nonni ci hanno insegnato che piuttosto di niente, è meglio piuttosto.

Bisognava trovare il modo di spartire con le televisioni diritti e risarcimenti di biglietti e abbonamenti, garantendo una parvenza di regolarità a un campionato che non l’avrà comunque. E questo potrebbe anche non essere un grande problema, alla vigilia dei Mondiali e delle Olimpiadi, se non fosse invece – in realtà – un problema inquinato volgarmente, in maniera bieca e ottusa, dall’avidità degli interessi di cortile.

Sere fa ero in studio a Sportitalia e ho assistito – cercando di farli tacere – a una discussione bieca, avvilente tra un politico, Ignazio La Russa, e un giudice, Piero Calabrò, che dovrebbero essere invece i primi ad accantonare sciarpa e bandiera rispetto a uno sfacelo che riguarda tutta l’Italia. E’ stato uno spettacolo deprimente. E la dice lunga sulla ramificazione del caos al quale stiamo assistendo nella distinzione tra campionati, stadi e città infetti, e campionati, stadi e città che non lo sono e che invece dovrebbero ovviamente, logicamente essere trattati come tutti gli altri. Per una questione di sicurezza, di logica, di buonsenso, non per il campanile o gli interessi privati che infestano, quelli sì, ormai a tutti i livelli la nostra vita quotidiana già al massimo degrado e al minimo storico forse proprio dal dopoguerra.

Bisogna proseguire le attività, tutte, dal calcio a quelle quotidiane, con la massima prudenza e con tutte le cautele del caso, ma bisogna proseguire, bisogna andare avanti perché altrimenti le conseguenze di questo contagio saranno più devastanti dello stesso virus. Si giochino tutte le partite a porte chiuse, punto. Se necessario, si giochi ogni tre giorni: avete rose lunghe, lautamente retribuite: fate giocare tutti, titolari, riserve e ragazzi delle giovanili. Chissenefrega di tutto il resto, di chi vince e di chi perde: l’importante oggi in questo Paese è andare avanti.

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